Milano, 4 ottobre 2010 – Festa di San Francesco d’Assisi

 

 

Raffaele Paolo COLUCCIA candidato al Premio Nobel per la Pace nel 2010

 

È con viva sorpresa e incredulità che oggi, 4 ottobre 2010, Festa di San Francesco d’Assisi, ho appreso la notizia della mia candidatura al Premio Nobel per la Pace, formulata in mio favore da parte di un gruppo di amici pacifisti.

Avvertendo quindi il dovere di ringraziarli, con un gesto concreto, ho deciso di ricordare pubblicamente, su queste pagine web, le opere di alcuni teologi che hanno curato la formazione dei giovani obiettori di coscienza, impegnati nel servizio civile (alternativo al servizio militare) presso la Caritas ambrosiana della Diocesi di Milano, negli anni Novanta, periodo in cui anch’io ho prestato il mio servizio civile presso lo stesso ente caritativo.

Tra i molti interventi significativi, voglio ricordare principalmente quelli offerti dal Direttore Mons. Angelo BAZZARI e dal Vescovo Mons. Luigi BETTAZZI, i quali hanno appunto animato le formazione dei giovani obiettori della Caritas, nel corso degli incontri formativi organizzati nei primi anni Novanta (1991-1993).

Qui di seguito posso pubblicare alcuni documenti relativi ad interventi di altri sacerdoti. Si tratta di due relazioni in materia di pace e di obiezione di coscienza al servizio militare, pronunciate in occasione dei corsi di formazione organizzati dalla Caritas presso il Centro Missionario di Barzio (LC) ed indirizzate alla formazione dei  giovani impegnati nel servizio civile. Sono pertanto lieto di poter pubblicare questi documenti formativi.

Inoltre, accanto a queste due prolusioni, mi è gradito pubblicare la lettera di congedo inviatami nel luglio 1993 da Don Virginio COLMEGNA, (all’epoca nuovo Direttore della Caritas ambrosiana, subentrato a Mons. Bazzari nella direzione dell'ente caritativo milanese).

Quanto alle due relazioni dattiloscritte (un po’ noiose, per dire la verità), ricordo che esse furono presentate nel 1991 da due teologi della Diocesi di Milano: Bruno Seveso e Giuseppe Grampa, i quali intervennero nel corso di un ritiro formativo obbligatorio di tre giorni, organizzato dalla Caritas di Milano, presso la località di Barzio, al fine di formare i giovani impegnato nel servizio civile.

 

Nel ringraziare quindi i Direttori della Caritas, Mons. Angelo BAZZARI e Don Virginio COLMEGNA, nonché il Vescovo Mons. Luigi BETTAZZI, rivolgo un caloroso invito alle amiche lettrici ed agli amici lettori, affinché vogliano ascoltare, leggere e documentarsi sulle opere e sulla biografia di questi prestigiosi protagonisti del volontariato solidaristico civile e cristiano. Non mancano, per fortuna, sia nelle librerie, sia nella rete informatica di Internet, i documenti, i libri e le notizie che riguardano questi protagonisti dell’azione solidaristica contemporanea. Rivolgo pertanto un pubblico invito alle amiche lettrici ed agli amici lettori affinché vogliano rintracciare le pubblicazioni edite da tali personaggi, certo che in esse potranno trovare un utile strumento di crescita civile, culturale e spirituale. Parimenti segnalo, a tale proposito, anche le opere pubblicate dal Vescovo salentino Mons. Antonio BELLO e quelle pubblicate dal Teologo Padre Bernhard Häring, opere che hanno rappresentato per me un prezioso ed impareggiabile strumento di crescita formativa e spirituale.

 

Per quanto riguarda invece le relazioni dattiloscritte che  Bruno Seveso e Giuseppe Grampa hanno voluto consegnare nel 1991 ai giovani obiettori impegnati nel servizio civile presso la Caritas di Milano, sono lieto di poter pubblicare tali documenti sulle pagine web che attengono al mio profilo biografico e formativo, nonché sui siti internet da me curati e redatti.

 

Desidero oggi espressamente ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla mia formazione civile, culturale e spirituale, a partire da mio Zio Mons. Francesco COLUCCIA e dall'insegnante liceale di Filosofia Prof. Antonio BLANDOLINO. Ringrazio anche i miei docenti di religione, il Vescovo Mons. Luigi MARTELLA ed il Parroco Don Vincenzo CERFEDA, senza dimenticare il mio insegnate di Lettere delle Scuole Medie Prof. Vittorio FERRARO e l’insegnate liceale di Lettere Prof.ssa Giuliana COPPOLA. Mi è gradito inoltre ricordare l'opera di alcuni docenti universitari del cui insegnamento ho avuto la fortuna di poter giovare nel periodo degli studi accademici: il Prof. Mario GROPPO ed il Prof. Piero SCHLESINGER. A tutti loro ed a tutte le persone che hanno contribuito alla mia formazione civile, culturale e cristiana desidero oggi dedicare un particolare pensiero di profonda riconoscenza e di infinita ammirazione.

 

Ancora incredulo e commosso per la notizia inattesa della candidatura al Premio Nobel per la Pace, segnalo quindi le dissertazioni qui di seguito pubblicate, le quali attengono ai seguenti argomenti:

 

1.

CARITAS AMBROSIANA

INCONTRO PER LA FORMAZIONE DEGLI OBIETTORI DI COSCIENZA IN SERVIZIO CIVILE

BARZIO (LC) – NOVEMBRE 1991

RELAZIONI DEI PROFESSORI:

BRUNO SEVESO : “Coscienza e obiezione di coscienza. (Traccia per la relazione)”.

GIUSEPPE GRAMPA : “Pace: utopia, profezia o realismo politico? Riflessioni etiche alla luce del recente magistero”.

 

2.

Lettera di congedo dal Servizio Civile, indirizzatami, nel luglio 1993, da parte del Direttore della Caritas di Milano VIRGINIO COLMEGNA.

 

 

CONCLUSIONE

Concludo infine ricordando con commozione i martiri cristiani che testimoniano con coraggio la loro fede religiosa ed il loro impegno civile e caritativo nei più difficili ed impervi luoghi del mondo. Un particolare ricordo va dunque al Sacerdote Don Andrea Santoro, caduto in Turchia nel 2006, ed al Vescovo Mons. Luigi Padovese, caduto nello stesso luogo nel 2010.

Desidero inoltre qui ricordare, con viva partecipazione, la lotta degli oppressi di tutte le latitudini, impegnati in una dura Resistenza contro lo sfruttamento lavorativo, per l’affermazione dei loro diritti e per la conquista dell’eguaglianza e della libertà.

 

Cordiali saluti

Raffaele Paolo Coluccia

 

 

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CARITAS AMBROSIANA

INCONTRO PER LA FORMAZIONE DEGLI OBIETTORI DI COSCIENZA IN SERVIZIO CIVILE

BARZIO (LC) – NOVEMBRE 1991

 

 

RELAZIONI DEI PROFESSORI:

 

 

BRUNO SEVESO :

“Coscienza e obiezione di coscienza. (Traccia per la relazione)”.

 

 

GIUSEPPE GRAMPA :

“Pace: utopia, profezia o realismo politico? Riflessioni etiche alla luce del recente magistero”.

 

 

segue:

 

 

VIRGINIO COLMEGNA

Lettera di congedo dal Servizio Civile, luglio 1993.

 

 

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BRUNO SEVESO

 

"COSCIENZA E OBIEZIONE DI COSCIENZA".

(traccia per la relazione).

 

 

0. Le attese da attivare

Non si tratta anzitutto di acquisire informazioni, che del resto già si posseggono, sull'argomento, né di avanzare proposte da condividere o da accantonare, dal momento che scelte già sono state compiute in tema di obiezione di coscienza. Si cerca piuttosto una presa di coscienza maggiormente articolata e partecipata comunitariamente circa i valori in gioco nella propria esperienza.

Come piattaforma di riferimento è proposta l'esperienza cristiana: quanto il cristiano, la Chiesa credono, sperano, amano, pur fra le difficoltà della storia dell'uomo. Fa da guida la persuasione della profonda sintonia di questa esperienza cristiana con quanto di autenticamente umano vive nel cuore dell'uomo: Gesù Cristo, l'uomo nuovo, è modello di vita per l'uomo. La proposta cristiana è offerta come modo buono e affidabile di concretizzare la propria vita, capace di dare pienezza all'esistenza dell'uomo, e dunque di dire una parola di verità anche circa le specifiche esperienze degli uomini.

Di fatto, il cammino di riflessione è segnato dall'oggetto stesso che qui interessa: l'obiezione di coscienza. E' invito ad una riesplorazione dei percorsi che dalla decisione di «obiezione di coscienza» riportano alla «coscienza».

 

l. Il significato iniziale di «obiezione di coscienza»

La «obiezione di coscienza» di fatto si istituisce in contrapposizione a «servizio militare» ed implica di per sé una presa di posizione circa i temi della pace e della guerra.

Il «cammino difficile» della Chiesa di ieri, ma anche dei nostri giorni, su questo terreno dice la complessità della questione e quale travaglio delle coscienze talvolta esso comporti. Dovremo probabilmente fare i conti ancora con la tensione fra esigenze di principio e realtà di fatto.

In queste condizioni l'obiezione di coscienza esprime un valore permanente, come affermazione delle ragioni della pace a fronte del «diritto» alla guerra. Coerentemente l'impegno maggiore dovrebbe essere rivolto all'ampliamento degli spazi di pace più che insistere nell'annullare le strutture di guerra. Si tratta di lasciarsi guidare ad aspirare ai «carismi più grandi» (1 Cor 12,31).

 

2. L'implicazione immediata

Per sua natura l'«obiezione di coscienza» comporta anche un confronto con l'istituzione statale. In certo modo, ci si pone «fuori», se non «contro», l'istituzione.

Potrebbe affacciarsi la tendenza alla squalifica della 'istituzione per la sua compromissione ritenuta insanabile, con la persuasione conseguente della sua incapacità di funzionare. Oppure la rivendicazione della propria soggettività potrebbe spingersi fino a porre in questione la validità della istituzione. E' possibile anche una miscelazione di questi due tipi di persuasioni. In ogni caso, almeno per il momento, sembra che nella obiezione di coscienza sia (ancora) presente una innegabile carica protestatoria nei confronti della istituzione statale.

Questo fatto merita attenzione. Assumiamo come filo conduttore l'indicazione suggerita da S. Paolo (Rom 13, 1-7). Essa è provocatoria nei confronti di ogni soluzione semplicistica.

La tesi di fondo ricorda che l'ordinamento civile non è semplice prodotto di una convenzione sociale, ma possiede un proprio significato permanente che va al di là delle persuasioni dell'individuo. Il «rispetto» dovuto per l'ordinamento civile include anche determinazioni concrete: diversamente sarebbe di fatto svuotato. D'altro lato, però, esso si riferisce all'insieme, e non direttamente e immediatamente alle singole determinazioni.

Non è lasciato all'arbitrio dei singoli dire come preferiscono comportarsi: l'istituzione sociale ha una sua consistenza che si impone al soggetto. In particolare, il rischio è quello della polarizzazione e della selettività: una contrapposizione globale, che sembra esaltare il protagonismo dell'individuo; una selettività che dalla istituzione di fatto data ritaglia ciò che risulta maggiormente confacente all'apprezzamento del singolo.

Si tratta piuttosto di recuperare l'intenzione profonda che presiede alla istituzione sociale: la qualità intersoggettiva dell’agire umano; la solidarietà come legge decisiva dell'agire.

 

3. Lo spostamento di significato

L'«obiezione di coscienza» raggiunge un proprio significato nel pieno suo collegamento con il «servizio civile».

Indicazioni e informazioni circa possibilità e forme attuali del servizio civile sono già state acquisite in altro momento parlando di «stato» e «società». In particolare, esso trova il proprio referente nel volontariato e nelle associazioni di volontariato.

Occorre perciò guardare al volontariato per dire cosa è servizio civile: si alimenta al volontariato e tende al volontariato. In ultima analisi, il servizio civile è scelta di vita e non semplice accorgimento del momento. Si iscrive e disegna una strategia di vita e non si riduce a diversivo tattico rispetto allo istituzione statale. L'impegno nel sociale assume i contorni di un progetto di vita.

 

4. Le motivazioni soggiacenti

In questa prospettiva, è opportuno chiarire il significato attribuito al volontariato nella propria esperienza personale.

Può essere visto come aspetto contingente, dovuto a fattori che devono essere superati, perché per lo più negativi: le emergenze, le lacune di intervento, le inefficienze di funzionamento. Dove la gestione ordinaria si rivela carente, arriva il volontariato.

Può essere colto come esigenza strutturale, che ricorda il coinvolgimento necessario del soggetto nelle istituzioni e il bisogno che le istituzioni hanno dell'apporto «gratuito» del cittadini. Il volontariato è allora visto come componente non superabile della vita civile.

Per meglio comprendere, una luce può venire dalla visione cristiana del rapporto di carità e giustizia e dalle indicazioni avanzate in proposito dalla Chiesa italiana (Evangelizzazione e testimonianza della carità).

 

5. Alle sorgenti del servizio civile

Il servizio civile nasce dalla presa di coscienza del significato della presenza dell'altro/degli altri nella esperienza personale.

Per un suo ulteriore approfondimento possiamo utilizzare il riferimento alle due figure del rapporto intersoggettivo disegnate rispettivamente dall'«essere socio» e dall'«essere prossimo».

L'«essere socio» rimanda ad una rete di rapporti tracciati da convenzioni, scritte o recepite. Si esprime in comportamenti predeterminati dalla obbligazione sociale e vede la preminenza di ruoli sociali codificati.

L'«essere prossimo» vede l'altro nella sua importanza per me proprio nella sua singolarità. Realizza un incontro che è personale: l'altro è persona che mi guarda negli occhi e che io guardo negli occhi.

Una migliore comprensione può attingere alla figura del «buon samaritano» (Lc 10, 25): e chi è il mio prossimo? o, più incisivamente, quando/come l'altro diventa mio prossimo? Fra «socio» e «prossimo» può stabilirsi una alternativa o può crescere una dialettica.

 

6. Il luogo della risposta

La presa di posizione nei confronti dell'altro è il luogo in cui emerge e prende consistenza la coscienza. Questa parla attraverso la «norma». La persuasione sembra diffusa, almeno nella forma che riconosce che «la mia libertà finisce dove incomincia la libertà dell'altro».

Con migliore comprensione, la coscienza si costituisce nella assunzione di responsabilità: anzitutto nei confronti del senso del proprio vivere e insieme nella creazione di condizioni perché anche l'altro possa acquisire un senso autentico del proprio vivere.

Si fa spazio, allora, al rispetto della coscienza anche «debole», senza pertanto rinunciare ad «edificare» con la propria testimonianza quel senso del vivere che dà gusto alla vita ed è capace di proporsi come significativo nei rapporti intersoggettivi.

 

7. La forza della coscienza

La coscienza si esprime nella libertà. Il desiderio del bene e l'intuizione di ciò che è buono per l'uomo guidano la libertà. Essa si costruisce in positivo, nella affermazione di valori. Rischia invece la stagnazione, se vista solo in negativo, incagliata nella denuncia. Si può denunciare rimanendo anonimi. Non si possono invece affermare valori senza testimoniarli.

Coscienza è dunque capacità di dire di sì. Essa è coinvolgimento totale, a fronte della tentazione dell'io «minimo»: il vivere alla giornata, accontentandosi di un sentirsi realizzato momentaneo, cautelandosi nei confronti dei rischi del futuro non esponendosi troppo nel presente.

Coscienza è libertà di spendersi per una causa affidabile. Essa porta i segni della fedeltà e della coerenza e cerca il respiro ampio dell'impegno a fronte dell'altro. Diversamente, la coscienza diventa «privata», si chiude nel «soggettivo», che non raramente coincide con l'effimero.

 

8. La tensione della coscienza

La libertà di cui la coscienza vive si dà nella decisione: investimento totale di sé nel concreto della situazione. Essa si costituisce nelle tante e diverse decisioni di cui è fatta 1a vita dell'uomo.

Le singole decisioni si iscrivono nell'alveo di una decisione fondamentale e a loro volta concorrono a plasmare questa decisione fondamentale. La decisione fondamentale costituisce l'orizzonte in cui avvengono le singole decisioni: il «bene» intuito in tutta la sua ampiezza e in tal modo voluto è concretizzato in «questo», visto come bene e come tale voluto.

Nella esperienza cristiana una traccia per proseguire in questa rilevazione della struttura della coscienza è suggerita dal tema del peccato. Ma la cultura attualmente diffusa per larga parte non conosce il peccato: ammette solo l'errore, lo sbaglio.

La cura per l'educazione della libertà diventa perciò cura per riproporre in modo «buono» l'opzione fondamentale che determina la coscienza.

 

9. Le condizioni di esercizio della coscienza

La coscienza dell'uomo vive nella situazione di corporeità dell'uomo. L'uomo é insieme e indissolubilmente anche corpo. vincoli posti dal suo essere corpo e dalla temporalità limitano la libertà dell'uomo e ne fanno una libertà situata. Queste condizioni sono però anche le uniche possibilità effettivamente date all'uomo di vivere la propria libertà.

Questa situazione della coscienza affiora in una dialettica a volte faticosa di riaffermazione della identità e apertura nel dialogo, esigenze della persone e istanze della comunità, norma esterna e norma interiore. In prospettiva cristiana, il «gemere» della coscienza si trasfonde nella «speranza» dell'uomo (Rom 8, 18-27).

 

10. La realizzazione dell'uomo nuovo

In questo suo cammino nella forza della propria coscienza il cristiano, ma anche ogni uomo, incontrano Gesù di Nazareth. A fronte dei tanti che hanno bene vissuto, Gesù si propone in una singolarità ineguagliabile: Lui è il Risorto, la rivelazione di Dio.

Il sì in cui Gesù ha consumato la sua libertà e ha vissuto la propria missione è la morte di croce: dedizione al Padre per la vita del mondo.

La fede che giustifica e che fa uscire verso un luogo non conosciuto affidandosi alla promessa di Dio, sull'esempio di Abramo che credette (Rom 4, 17-25), ha in Gesù risorto il compimento di questa promessa. Nella prospettiva cristiana, in questa fede la coscienza trova la piena realizzazione.

 

PER IL LAVORO DI GRUPPO

 

1. Quale significato si attribuisce di fatto all'obiezione di coscienza? Quale presa di posizione nei confronti di pace e pacifismo?

 

2. Quale il rapporto con l'istituzione statale? quale posizione rispetto allo stare fuori/dentro l'istituzione? ci sono stati mutamenti significativi nella propria esperienza? si sono notati cambiamenti al riguardo, specie fra i giovani?

 

3. Quale idea si nutre del servizio civile? quali le motivazioni del volontariato? quale l'influsso della mentalità diffusa sulla propria esperienza personale?

 

4. Quale idea si ha della convivenza sociale: società dei diritti o domanda di prossimità? quali le possibilità di affermazione di una cultura solidale?

 

5. Che idea si ha della coscienza, nella propria esperienza personale e nella esperienza diffusa, specie giovanile? quale l'idea della libertà: semplice indipendenza o consapevolezza di impegno? quali le possibilità sociali di una autentica educazione alla libertà?

 

6. Come si percepiscono le tensioni della coscienza, nella esperienza personale e nella mentalità diffusa, specie giovanile? Esiste una voglia di confrontarsi con la propria coscienza e di sostenerne anche la debolezza?

 

7. Quale l'incidenza della proposta cristiana in questo cammino di coscienza? quale collocazione ha il richiamo alla esperienza di Gesù di Nazareth?

 

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GIUSEPPE GRAMPA

 

"PACE: UTOPIA, PROFEZIA O REALISMO POLITICO?"

"Riflessioni etiche alla luce del recente magistero".

 

 

Possiamo riconoscere nel lungo e arduo cammino della coscienza cristiana in tema di pace e di guerra una dimensione critica: il valore utopico e profetico della pace ha condotto dalla dottrina della 'guerra giusta' fino alla richiesta di superamento della stessa deterrenza. Il cammino è stato impervio ma costante: "Abbiamo causato guerre e non siamo stati capaci di sfruttare tutte le opportunita' di dialogo e di riconciliazione: abbiamo accettato e spesso giustificato con troppa facilita' le guerre". Così l'Assemblea di Basilea (15-21/5/1989) (n. 43).

Le nostre riflessioni vogliono ispirarsi al recente magistero: non è quindi questa la sede per una ricognizione storica dei rapporti tra coscienza cristiana e pace nell’arco di due millenni. Non prenderemo in esame il contributo che il Nuovo Testamento offre al tema della pace, della non violenza. Mi limiterò a qualche cenno circa i primi secoli cristiani per situare gli interventi recenti entro una lunga vicenda storica e mostrare così il carattere, in certa misura, ‘congiunturale’ di tali interventi. Essi si fanno carico, infatti, non solo di riproporre le ‘intransigenze’ evangeliche in tema di pace, l’utopia e la profezia della pace ma anche di calcolare il possibile politicamente realistico, studiare e valutare le condizioni storiche che rendono praticabili tali intransigenze. La 'giustizia' che tali pronunciamenti intendono favorire è quella che esige una misura e quindi una comparazione di meglio e di peggio, di più e di meno. Tale 'giustizia' è quindi chiamata a calcolare e a misurarsi con il potere, un potere non immediatamente demonizzato ma messo al servizio della giustizia. Per questo a taluni il linguaggio di questi pronunciamenti sembra troppo poco 'profetico'. In realta' la tensione costante tra utopia profezia da un lato e realismo politico dall'altro ha permesso il cammino irreversibile verso la pace.

1. I cristiani e l'esercito dell'Imperatore

Fin verso il 170-180 d.C. non abbiamo notizia di cristiani militanti nell'esercito. Un testo di quel periodo riferisce l'opinione di un pagano, Celso, che suppone una situazione di totale estraneità: "Se i cristiani vogliono la pace accettino di soccorrere l'imperatore con tutte le loro forze, collaborino con lui alle sue giuste imprese, combattano per lui, servano con i suoi soldati, se lo esige e con i suoi strateghi". Probabilmente almeno tre ordini di motivi spiegano tale estraneità: - la consapevolezza acuta tra i primi cristiani d'essere quasi estranei e provvisori in questo mondo; - il rifiuto dei rituali di tipo idolatarico che accompagnavano l'arruolamento, - il rifiuto di versare il sangue. Alla fine del II sec. abbiamo un testo, la Tradizione Apostolica di Ippolito di Roma che fissa le norme per i cristiani che aderiscono all'esercito e per i soldati che vogliono convertirsi:"Il soldato non ucciderà nessuno. Se riceverà l'ordine non lo dovrà eseguire. Se rifiuta sarà scomunicato. Il catecumeno o il fedele che vogliono farsi soldati saranno scomunicati, perchè hanno disprezzato Dio" ". Nel 248, Origene esprime una posizione di netto rifiuto: "Noi non brandiamo più la spada contro alcun popolo, nè ci esercitiamo a fare la guerra; noi siamo divenuti figli di pace mediante Gesù Cristo che è nostro condottiero...Noi non serviremo come soldati anche se l'Imperatore lo esige, ma noi combattiamo per lui levando un'armata speciale: quella della pietà" (Contr Celsum, VIII,74). In breve volgere di anni la posizione subisce un profondo mutamento a seguito della cosiddetta 'svolta costantiana'. Chiuso il periodo delle persecuzioni, Costantino non solo riconosce la chiesa ma le conferisce un ruolo sociale sempre più rilevante. All'indomani dell'Editto di Milano (313) Costantino convoca il Concilio di Arles (314) che stabilisce la scomunica contro coloro che "in pace abbandonano le armi" cioè contro coloro che non vogliono prestare servizio militare. Con successive leggi del 404,410,415 si vieta ad Ebrei, eretici e pagani la partecipazione all'esercito che diventa così solo di cristiani. Tale evoluzione si spiega con il mutato atteggiamento dei cristiani nei confronti dell'impero, dopo il tempo delle persecuzioni. Questa nuova maniera di considerare l'Impera trovera' un valido supporto nel pensiero di Eusebio di Cesarea per il quale l'Imperatore era il luogotenente del Cristo-Logos e le sue guerre non ptevano essere che guerre sante. Non dimentichiamo inoltre le minacce che i barbari rappresentavano per le ormai deboli strutture dell'impero.

Tra gli Atti dei Martiri due riguardano il nostro problema. Nel 295 a Tibeste nei pressi di Cartagine, Massimiliano rifiuta la coscrizione: "Io non farò il soldato..io sono soldato del mio Dio": Eppure il proconsole Dione per salvare il giovane gli ricorda che altri cristiani servono nell'esercito: Anche il padre del giovane non sembra vedere incompatibilità tanto che ha preparato la divisa militare. Massimiliano viene condannato proprio perchè obiettore di coscienza. Nel 262 a Cesarea di Palestina Marino, già ufficiale dell'esercito, viene denunciato da un commilitone invidioso. Marino è messo di fronte alla scelta tra la spada e il vangelo. Marino confessa la sua fede e affronta il martirio.

Un testo di sant'Agostino esprime la consapevolezza dei cristiani d'essere il sostegno dell'Impero: "Coloro che sostengono che la religione cristiana è contraria allo Stato, mostrino un esercito tale quale la dottrina di Cristo prescrive ai soldati, mostrino tali amministratori, tali sudditi quali ordina che siano la dottrina cristiana e poi osino affermare che essa è contraria allo Stato" (Epistola 138,5).

2. La cosiddetta 'guerra giusta'

Il pensiero di sant'Agostino sulla cosiddetta 'guerra giusta' diventera' dottrina comune insegnata dai moralisti cattolici anche se mai sancita ufficialmente dal magistero della Chiesa. Con tale formula non si vuole conferire alla guerra legittimita' morale in ogni caso, ma al contrario limitare il ricorso ad essa in quei casi considerati appunto 'giusti': "Fare la guerra è una felicita' per i malvagi, ma per i buoni una necessita'...E'ingiusta la guerra fatta contro popoli inoffensivi, per desiderio di nuocere, per sete di potere, per ingrandire un impero, per ottenere ricchezze e acquistare gloria. In tutti questi casi la guerra va considerata un 'brigantaggio in grande stile" (De Civitate Dei, IV, 6).

C'è anche, purtroppo, la guerra 'meritoria': quella che si combatte contro i nemici della fede, per liberare la Terra santa dalle mani degli empi (Concilio lateranense IV, const. 71, 1215). Così san Bernardo si rivolgeva ai Templari: "I soldati di Cristo combattono le battaglie del loro Dio senza preoccupazione, non temendo affatto di commettere peccato uccidendo i nemici ...egli è ministro di Dio per la vendetta dei malfattori e la lode dei buoni. Quando infatti uccide un malfattore, non è un omicida ma, per così dire, un 'malicida', è un vendicatore di Cristo contro coloro che fanno il male, è un difensore dei cristiani" (De laude novae militiae. Ad milites Templi liber, 3; PL 182, 924).

La dottrina agostiniana della guerra giusta, ripresa da san Tommaso, viene sistematizzata dai teologi e giuristi dei secoli XVI e XVII, de Vitoria, Suarez e Molina nella prospettiva di arginare il troppo facile ricorso alla guerra da parte del Sovrano. Si esige quindi, per riconoscere ad una guerra la qualifica di giusta, la proporzione tra la gravita' dell'ingiustizia subita e le calamita' che saranno conseguenza della guerra. In secondo luogo diventa ingiusta quella guerra che causa danni al mondo intero o alla cristianita'.

Ritroviamo questa logica della 'guerra giusta' nell'insegnamento di Pio XII: "Poichè la liberta' umana è capace di scatenare un ingiusto conflitto ai danni di una nazione, è certo che questa può, in determinate condizioni, sollevarsi in armi e difendersi". Non è quindi negata la liceita' della guerra di difesa contro un ingiusto aggressore, ma solo a certe condizioni: "Abbiamo espresso il desiderio che sia punita sul piano internazionale ogni guerra che non sia esigita dalla necessita' assoluta di difendersi contro una ingiustizia molto grave riguardante la comunita', quando non è possibile impedirla con altri mezzi, e sia tuttavia necessario farlo, se non si vuole lasciare campo libero nelle relazioni internazionali alla violenza brutale e alla mancanza di coscienza. Non è dunque sufficiente il fatto di doversi difendere contro qualche ingiustizia per utilizzare il metodo violento della guerra. Allorchè i danni procurati da questa non sono comparabili con quelli della 'ingiustizia tollerata' si può avere l'obbligo di 'subire ingiustizia'" (Discorso del 19/10/1953). Il Radiomessaggio natalizio del 1956, dopo i fatti di Ungheria, accentua la necessita' della difesa contro l'ingiusta aggressione: "E'manifesto che nelle presenti circostanze può verificarsi in una Nazione il caso in cui, risultato vano ogni sforzo per scongiurarla, la guerra, per difendersi efficacemente e con speranza favorevole di successo da ingiusti attacchi, non potrebbe essere considerata illecita. Se dunque una rappresentanza popolare e un Governo eletti con libero suffragio, in estremo bisogno, coi legittimi mezzi di politica estera ed interna, stabiliscono provvedimenti di difesa ed eseguiscono le disposizioni a loro giudizio necessarie, essi si comportano egualmente in maniera non immorale, di guisa che un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge" (23/12/1956). Come si vede, l'intenzione di tale dottrina non è quella di legittimare la guerra bensì quella di allontanare il pericolo di conflitti armati. Non la legittimazione della guerra ma la promozione della pace è l'intenzione di questo magistero.

3. Il superamento della 'guerra giusta'

Tale dottrina della guerra giusta, espressione di un'argomentazione etico-politica formulata a partire dai principi del 'diritto naturale' prescindendo dal riferimento ad una data situazione storica, alle forme del conflitto, all'evoluzione politica, ecc., era destinata a cadere nella nuova impostazione che il Concilio dava alla problematica etico-politica. E infatti dopo una sommaria presentazioni delle nuove forme di armamento la Gaudium et Spes conclude: "Tutte queste cose ci obbligano a considerare l'argomento della guerra con mentalita' completamente nuova" (80b). Le trasformazioni che intervengono nella guerra con l'uso di quelle che il Concilio chiama le 'moderne armi scientifiche' rendono sempre più problematico l'appello al principio di legittima difesa per giustificare il ricorso alla guerra: "Non si può porre neppure in linea di principio la questione della liceita' della guerra atomica, chimica e batteriologica se non nel caso in cui essa debba essere giudicata indispensabile per difendersi alle condizioni indicate. Anche allora tuttavia occorre sforzarsi in tutti i modi di evitarla grazie a delle intese internazionali oppure di porre alla sua utilizzazione dei limiti sufficientemente precisi e stretti perchè i suoi effetti restino limitati alla strette esigenze della difesa. Quando l'impiego di tali mezzi comporta un'estensione del male tale da sfuggire interamente al controllo dell'uomo, la sua utilizzazione deve essere rigettata come immorale. Non si tratterebbe più allora di difesa contro l'ingiustizia, e di salvaguardia necessaria di legittimi possessi, ma di distruzione pura e semplice di ogni vita umana all'interno del raggio di azione. Ciò non è permesso a nessun titolo" (Discorso del 7/9/1954). Giovanni XXIII nella Pacem in terris dichiarera' che : "Nell'era atomica è irrazionale (alienum est a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda) pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati" (n. 127). Il Concilio e in particolare la Gaudium et Spes si impegnano, previamente, nella comprensione dell'epoca nella quale viviamo, come compito pregiudiziale in ordine alla formulazione di giudizi etico-politici circa la guerra e la pace. Dobbiamo rilevare la svolta metodologica: non più giudizi etico-politici dedotti esclusivamente dal 'diritto naturale' ma, a partire dalla situazione data, il confronto tra l'effettuale e il possibile, tra ciò che di fatto accade e ciò che potrebbe praticamente accadere. Il testo della G. et S. offre solo un primo abbozzo di comprensione della situazione presente: "Il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l'orrore e l'atrocita' della guerra. Le azioni militari, infatti, se condotte con questi mezzi, possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto, di gran lunga, i limiti di una legittima difesa ...Avendo ben considerato tutte queste cose, questo sacrosanto Concilio, facendo proprie le condanne della guerra totale, gia' pronunciate dai recenti Sommi Pontefici, dichiara: ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere citta' o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanita' e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato" (Gaudium et spes, 80). Per conseguenza diviene sempre più plausibile l'obiezione di coscienza (ibid. 79). Dobbiamo anche ricordare, tra le ragioni che hanno portato al superamento della dottrina della guerra giusta, la progressiva adesione alla struttura politica di tipo democratico, con il riconoscimento dell'opinione pubblica come istanza di controllo e di guida nella gestione del potere politico. Anche sul piano internazionale, il progressivo consolidarsi di una istanza sovranazionale costituisce una sia pur gracile alternativa alla guerra mediante la mediazione politica. Sono quindi due le affermazioni del Concilio sul nostro problema: la condanna etica assoluta di ogni azione di guerra realizzabile con le 'più moderne armi scientifiche'. Per questo tipo di azione il Concilio non prevede alcuna possibile forma di legittimazione. La seconda affermazione riguarda la corsa agli armamenti e la logica della deterrenza

4. La logica della deterrenza e il problema del disarmo

Il Concilio ammette infatti una logica delle deterrenza. Afferma: "Le moderne armi scientifiche, è vero, non vengono accumulate con l'unica intenzione di poterle usare in tempo di guerra" (81a). Nasce così la filosofia della dissuasione o deterrenza: "Poiché infatti si ritiene che la solidita' della difesa di ciascuna parte dipenda dalla possibilità' fulminea di rappresaglie, questo ammassamento di armi, che va aumentando di anno in anno, serve, in maniera certo inconsueta, a dissuadere eventuali avversari dal compiere atti di guerra. E questo è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi una certa pace tra le nazioni" (81b).Nei confronti della dissuasione il Concilio non esprime un giudizio assoluto "qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo" (81c). A proposito di questa logica della deterrenza, il Concilio afferma che essa "non è via sicura per conservare saldamente la pace ...le cause di guerre anzichè venire eliminate da tale corsa minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente ...mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente" (82b.c). Nella stessa linea Paolo VI: "Se l'equilibrio del terrore è potuto e può ancora servire per qualche tempo a evitare il peggio, pensare che la corsa agli armamenti possa continuare così, indefinitamente, senza provocare una catastrofe, sarebbe una tragica illusione" (La Santa Sede e il disarmo, n. 800) E Giovanni Paolo II nel Messaggio all'O.N.U. del 1982: "Nelle attuali condizioni, una dissuasione fondata sull'equilibrio, non certo come fine in sè, ma come una tappa sulla via del disarmo progressivo, può ancora essere giudicata come moralmente accettabile". Logica della deterrenza-dissuasione e disarmo sono le due facce del medesimo problema. Si possono tollerare la deterrenza e quindi gli arsenali solo come extrema ratio che lega la pace all'equilibrio del terrore. Il riconoscimento solo provvisorio e congiunturale della logica della deterrenza impone un processo di disarmo controllato e bilaterale: "Il disarmo militare, Per non costituire un imperdonabile errore di impossibile ottimismo, di cieca ingenuita', dovrebbe essere comune e generale. Il disarmo o è di tutti o è un delitto di mancata difesa" (Paolo VI, Messaggio per la giornata della pace 1976). Nel 1983 numerosi Episcopati si pronunciarono in materia di pace, deterrenza, disarmo. I vescovi statunitensi affermano una "accettazione estremamente condizionata della deterrenza. Noi non ci sentiamo di considerarla adeguata ad essere una base durevole per la pace". E i vescovi del Belgio: "Al massimo la dissuasione è un 'male minore', una soluzione disperata, strettamente provvisoria e da mantenersi nei limiti più rigorosi". E i vescovi olandesi: "L'accettazione del possesso delle armi nucleari con il loro scopo di deterrenza può essere soltanto temporanea e provvisoria, come fase di un processo di disarmo progressivo verso una vera pace". Il riconoscimento del ruolo che, paradossalmente, la dissuasione può svolgere a vantaggio della non belligeranza, è comunque accompagnato da una sempre più chiara coscienza della sua insufficienza e precarieta'. I vescovi statunitensi si domandano: "Una nazione ha il diritto di agitare una minaccia che non avra' mai il diritto di mettere in atto? Ha il diritto di possedere qualche cosa di cui non avrai mai il diritto di fare uso? Il pericolo della situazione è chiaro, ma come impedire l'utilizzo delle armi nucleari? Che giudizio dare della dissuasione e come definire la responsabilita' morale nell'epoca del nucleare?" Ritroviamo interrogativi analoghi nella riflessione del nostro Arcivescovo: "Si può minacciare un intervento la cui concreta attuazione è giudicata immorale? Quanto a lungo si potra' resistere alla tentazione di passare dalla minaccia all'uso delle armi nucleari?...La corsa agli armamenti nucleari fatta in nome della dissuasione ha concretamente allentato in questi anni oppure ha inasprito le tensioni? Quali e quanti mezzi, energie, possibilita' ha assorbito la corsa agli armamenti, sottraendo forze preziose alla lotta contro la fame, la malattia e per la promozione della vita? Quali germi di violenza essa introduce nel costume e nel quotidiano vivere degli uomini? (Discorso per sant'Ambrogio, 1983).

Anche sul disarmo le posizioni sono largamente convergenti: "Il controllo delle armi e il disarmo devono essere un processo basato su accordi verificabili, in specie tra le due superpotenze. Noi non parteggiamo per una politica di disarmo unilaterale. Così i vescovi statunitensi. E gli Olandesi: "Le trattative sono indispensabili per un vero disarmo. Esse richiedono pazienza e insistenza e devono essere indirizzate ad una riduzione degli armamenti equilibrata, contemporanea e controllata internazionalmente". Ma l'esclusione del disarmo unilaterale--richieso invece dai movimenti pacifisti-- non è semplicemente atteggiamento attendista. Riprendendo una parola di Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata della pace 1983, "compiere tutti i passi, anche i più piccoli, che rendano possibile un dialogo ragionevole in questo campo tanto fondamentale", i diversi episcopati chiedono gesti, iniziative volte a creare le condizioni per il disarmo bilaterale. Così i Vescovi olandesi: "Ma qualcuno deve pure cominciare ...Per infondere fiducia e convincere la controparte che il vero scopo è il disarmo e non il suo indebolimento, può essere necessario che una delle parti faccia per prima dei passi verso un controllo e una riduzione delle armi ...Non sarebbe realistico nascondersi che la fiducia accordata con questi primi passi comporta pure dei rischi".

Sul problema della deterrenza e del disarmo si è pronunciata anche l'Assemblea di Basilea che, espressione delle chiese cristiane europee esprime una significativa tendenza. "Consideriamo vitale e urgente per l'umanità l'abolizione dell'istituzione della guerra e il superamento della deterrenza fondata sulle armi di distruzione di massa. Sentiamo il bisogno di liberare progressivamente il mondo da tutte le armi di distruzione di massa" (75) "Chiediamo a tutti i governi europei di unire le forze e di operare insieme con l'obiettivo che lo sviluppo, la produzione, la installazione, gli esperimenti, il possesso e l'utilizzo di armi di distruzione di massa nucleari, biologiche o chimiche siano condannati da una legge internazionale che conduca alla loro eliminazione; chiediamo inoltre che attraverso questa strada il sistema della deterrenza nucleare sia superato e sostituito da un sistema di sicurezza diverso e meno pericoloso" (86c). "Gli spropositati arsenali di armi nucleari, convenzionali e di altro tipo minacciano l'intero genere umano. Cresce la consapevolezza che non ci si può affidare, per preservare la pace, alla deterrenza basata sulle armi di distruzione di massa. Il continuo rischio di fallimento è ragione sufficiente per cui il sistema della deterrenza debba essere superato. La spesa per gli armamenti nel mondo assorbe ampie riserve che sarebbero necessarie per lo sviluppo e la protezione dell'ambiente. La guerra e la minaccia della guerra sono tratti caratteristici anche del mondo moderno. La prevenzione della guerra è uno dei compiti politici più urgenti per i governi. I mezzi nazionali di difesa non possono garantire salvezza e sicurezza nel mondo moderno; l'istituzione guerra deve essere abolita. Si richiede un ordine internazionale di pace" (11).

Sul commercio delle armi l'Assemblea ha trovato una difficile e 'acrobatica' mediazione: "Il commercio internazionale della armi e l'esportazione di armamenti e di tecnologia militare verso le zone di conflitto e di tensioni dovrebbero essere fermati. In tutte le altre circostanze dovrebbero essere sottoposti a norme e regolamentazioni delle più restrittive. Devono essere trovate delle strategie per la riconversione dell'industria bellica alla produzione civile" (86f).

5. Il Papa e la guerra nel Golfo

Conversando con i giornalisti durante il viaggio in Africa, il primo settembre 1990, il Papa ribadiva la condanna del ricorso alla guerra come mezzo per la soluzione delle vertenze internazionali: "La guerra porta con sè più violazioni dei diritti umani e più mali che beni e soluzioni. Si deve fare tutto il possibile per evitare la soluzione bellica in questo ambiente del Golfo". E nel Messaggio natalizio:; "Per l'area del Golfo, trepidanti, aspettiamo il dileguarsi della minaccia delle armi. Si persuadano i responsabili che la guerra è avventura senza ritorno". Il 12 gennaio nel Discorso al Corpo diplomatico, il riconoscimento del diritto violato porta a interrogarsi sulle vie e i mezzi per ristabilire l'ordine internazionale: "Quando un paese viola le regole più elementari del diritto internazionale, è tutta la coesistenza tra le nazioni che è rimessa in causa. Non si può accettare che la legge dei più forti sia brutalmente imposta ai più deboli". Se "la concentrazione massiccia di uomini e di armi dovesse sfociare in una azione militare anche limitata, le operazioni sarebbero particolarmente sanguinose, senza contare le conseguenze ecologiche, politiche, economiche e strategiche, di cui forse non misuriamo ancora tutta la gravita' e la portata. Infine, lasciando intatte le cause profonde della violenza in questa parte del mondo, la pace ottenuta con le armi non potrebbe che preparare nuove violenze ...Consapevoli dei rischi--dirò anche della tragica avventura-che rappresenterebbe una guerra nel Golfo, i veri amici della pace sanno che l'ora è più che mai quella del dialogo, del negoziato, della preminenza della legge internazionale. Sì, la pace è ancora possibile; la guerra sarebbe il declino dell'umanita' intera ...Le esigenze di umanita' (Dichiarazione di St. Petersbourg, 1868; La Haye, 1907, Convenzione IV) ci chiedono oggi di andare risolutamente verso l'assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinati" (ibid.). E alla vigilia del'ultimatum, il 13 gennaio ribadiva la sua persuasione sull’inadeguatezza del ricorso alla guerra come mezzo di soluzione dei problemi: "Oltre ai combattenti, quanti civili, quanti bambini, quante donne, quanti anziani sarebbero vittime innocenti di una simile catastrofe? Chi può prevedere le distruzioni e i danni ambientali che ne verrebbero e non solo in quell'area? Fin dall'inizio della crisi, e con maggiore insistenza nei giorni scorsi, ho sentito il bisogno di invitare i responsabili delle sorti dei popoli a riflettere sulla estrema necessita` di far prevalere il dialogo e la ragione e di preservare la giustizia e l'ordine internazionale senza ricorrere alla violenza delle armi. Nelle condizioni attuali una guerra non risolverebbe i problemi, ma li aggraverebbe soltanto". Bisogna riconoscere che il Papa non ha solo dato voce alla coscienza umana e cristiana che ripudia la guerra come strumento di soluzione dei conflitti, ma si è ulteriormente impegnato, in questa circostanza, a formulare indicazioni che se hanno una motivazione etica non mancano di preciso spessore politico. In particolare l'approccio globale ai problemi del Medio Oriente con la proposta di una Conferenza di pace che rimuova gli ostacoli più gravi sulla via della pace in quella regione. L'interdipendenza tra questione del Golfo, Libano e Palestina è appunto la ragione storica che ha spinto il papa a chiedere insistentemente un approccio globale ai problemi mediorientali. Gia' il 26 agosto accomunava le popolazioni del Golfo con quelle non meno provate del Libano e della Palestina. Di nuovo il 18 novembre. Soprattutto nel gia' menzionato Discorso al Corpo diplomatico (12 gennaio) il giudizio si fa più articolato: "Da decenni, il popolo palestinese è gravemente provato e trattato ingiustamente: lo testimoniano le centinaia di migliaia di rifugiati dispersi nella regione e in altre parti del mondo, e anche la situazione degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Si tratta di un popolo che chiede di essere ascoltato, anche se si deve riconoscere che certi gruppi palestinesi hanno scelto, per farsi ascoltare, metodi inaccettabili e condannabili. Ma, d'altra parte, occorre costatare che troppo spesso è stato risposto negativamente alle richieste provenienti da diverse istanze e che avrebbero potuto permettere almeno di instaurare un processo di dialogo allo scopo di garantire allo stesso tempo allo Stato di Israele le giuste condizioni per la sua sicurezza e al popolo palestinese i suoi diritti incontestabili". "Molto vicino si trova, smembrato, il Libano. E' in agonia da anni sotto gli occhi di tutto il mondo, senza che si sia mai voluto aiutarlo a superare i suoi problemi interni e a liberarsi degli elementi e delle potenze esterne che volevano servirsi di esso per i loro propri fini. E' tempo che tutte le forze armate non libanesi si impegnino a evacuare il territorio nazionale e che i libanesi siano in grado di scegliere le forme del loro vivere insieme nella fedelta' alla loro storia e nella continuita' con il loro patrimonio di pluralismo culturale e religioso".

E il mattino del primo giorno di guerra, 17 gennaio, il Papa ribadisce la sua denuncia della guerra come strumento di soluzione e la proposta di una soluzione politico-negoziale che affronti globalmente i problemi del Medio Oriente: "In queste ore di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sara' mai. Continuo a sperare che ciò che è 'iniziato abbia fine al più presto. Prego affinchè l'esperienza di questo primo giorno di conflitto sia sufficiente per far comprendere l'orrore di quanto sta succedendo e far capire la necessita' che le aspirazioni e i diritti di tutti i popoli della regione siano oggetto di un particolare impegno della comunita' internazionale. Si tratta di problemi la cui soluzione può essere ricercata solamente in un contesto internazionale, ove tutte le parti interessate siano presenti e cooperino con lealta’".

E nel discorso del 4 marzo, in occasione dell'incontro con i vescovi dei paesi implicati nel conflitto, ha detto: "Ora sappiamo che dalla fine della seconda guerra mondiale un ordine internazionale ha visto la luce con lo scopo di rendere solidali, ovunque soggetti uguali in dignita' e in diritto. Ha escluso la guerra come mezzo utile per la soluzione delle controversie tra le nazioni ...(il dopoguerra nel Golfo dovra' farsi carico di questi problemi) il rispetto effettivo del principio dell'integrita' territoriale degli stati; la soluzione dei problemi irrisolti da decenni e che costituiscono focolai di tensioni continue; la regolamentazione del commercio delle armi dì ogni tipo, accordi per il disarmo della regione. E' soltanto quando sara' data una risposta a questi problemi che potranno coesistere nella pace, l'Iraq e i suoi vicini Israele, il Libano, il popolo palestinese e i ciprioti".

Nei giorni 4-6 marzo il Papa ha convocato i Vescovi dei paesi coinvolti nel conflitto. Ne è uscita una dichiarazione che ribadisce il rifiuto della guerra--"declino dell'umanita', scacco della comunita' internazionale, attentato ai valori più cari a tutte le religioni"--. Si vuoe mantenere "un dialogo genuino, profondo e costante che parta dalla nostra fede nell'unico Dio e dalla comune preoccupazione per i valori della giustizia e della promozione dell'uomo" con i fratelli ebrei e musulmani. Si auspica "che le trattative per una pace giusta non comportino umiliazioni per nessuno nè aspetti punitivi per qualche popolazione. Riteniamo che il ritorno della pace nel Medio Oriente non possa aversi se non con il compimento della giustizia e rimuovendo le cause prossime e remote dei conflitti che affliggono la regione". Vengono nuovamente menzionati il problema palestinese, israeliano e libanese.

6. Educare alla pace

E' davvero un difficile itinerario quello che abbiamo tentato di ripercorrere: esso è teso tra profezia e condizioni storiche, tra utopia e calcolo del possibile. Anche il linguaggio rivela questa polarita' che segna la vita delle nostre comunita' nelle quali convivono posizioni a prima vista inconciliabili. In occasione della Giornata della pace 1984 diceva il nostro Arcivescovo: "Chi ha scelto la strada del pacifismo puro e senza mediazioni, provi a considerare gli ostacoli che incontra sul suo cammino; provi a riflettere sulla terribile portata della cattiveria che è presente nella società e che, se non viene in qualche modo arginata e scoraggiata, può travolgere milioni di persone innocenti e indifese; provi a considerare lucidamente se il proprio atteggiamento non finisce per essere strumentalizzato e quindi trasformato in strumento di nuove divisioni, tensioni e lotte. Chi si sta impegnando nella ricerca di strategie politiche, di equilibri negli armamenti, di strumenti efficaci di dissuasione e di difesa contro ingiuste aggressioni, provi a considerare la precarieta' e la pericolosita' dei mezzi che vengono approntati; provi a riflettere sulla parzialita' degli effetti ottenuti; provi a interpretare la portata vera delle aspirazioni degli uomini alla pace".

L'educazione alla pace è compito arduo che non tollera la retorica: "La pace non può essere basata su una falsa retorica di parole ...che possono anche servire, ed hanno purtroppo a volte servito a nascondere il vuoto di vero spirito e di reali intenzioni di pace, se non addirittura a coprire sentimenti e azioni di sopraffazioni o interessi di parte" (Messaggio per la giornata della pace 1968).

L'educazione alla pace deve metter in guardia dalle contraffazioni e dalle banalizzazioni della pace. Pace non è pacifismo, ricorda Paolo VI nel Messaggio del 1968: "Sara' da auspicare che la esaltazione dell'ideale della pace non debba favorire l'ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella difesa della giustizia e della liberta', ma cercano solamente la fuga dalla responsabilita', dai rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose: pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita". L'educazione alla pace esige una adeguata-realistica-intelligenza della condizione umana: "Ripetiamo l'invito alla riflessione sulla possibilita' della pace indicando i sentieri lungo i quali tale riflessione può enormemente approfondirsi: sono i sentieri d'una realistica conoscenza dell'antropologia umana, nella quale le ragioni misteriose del male e del bene nella storia e nel cuore dell'uomo ci svelano perchè la pace sia problema sempre aperto" (1973).

Il riconoscimento del male in tutte le sue forme, questa immane potenza del negativo che ha nella guerra la sua manifestazione più drammatica, non deve però paralizzare la fiducia nelle risorse positive dell'uomo: nasce di qui la tensione al dialogo come via privilegiata alla pace: "Ogni uomo, credente o no, pur restando prudente e lucido circa la possibile ostinazione del suo fratello, può e deve conservare una sufficiente fiducia nell'uomo, nella sua capacita' di essere ragionevole, nel suo senso del bene, della giustizia, dell'equita', nella sua possibilita' di amore fraterno e di speranza, mai totalmente pervertiti, per scommettere sul ricorso al dialogo e sulla sua possibile ripresa" (1983). Questa fiducia nell'uomo è anzitutto fiducia nelle risorse della sua coscienza, soprattutto di quanti patiscono ingiustizia. Bisogna puntare "sulle forze di pace nascoste negli uomini e nei popoli che soffrono ...così da sottoporre le forze oppressive a delle spinte efficaci di trasformazione, più efficaci di quelle fiammate di violenza che in genere non producono nulla, se non un futuro di sofferenze ancora più grandi" (1980). Alla forza della coscienza ben più che alla violenza è affidata la causa della pace. La condanna della violenza è sempre più netta e radicale, senza cedimenti a favore di una forma 'giusta' della violenza. "Proclamo con la forza della mia fede in Cristo e con la coscienza della mia missione che la violenza è un male, che la violenza è inaccettabile come soluzione dei problemi, che la violenza è indegna dell'uomo ...La violenza è un crimine contro l'umanita' perchè distrugge il reale tessuto dell'umanita'" (1979). Non dobbiamo dimenticare che una imponente tradizione culturale non solo marxista, ha conferito legittimita' e titolo di riscatto alla violenza nei confronti di ingiuste strutture economiche e politiche. Il Concilio si era limitato ad un laconico cenno al tema della non violenza, approvando coloro che rinunciano ai mezzi violenti per la "salvaguardia dei diritti". I vescovi statunitensi vedono la non violenza nel solco dello sforzo secolare della chiesa per arginare la violenza e limitare le guerre. Parlano della non violenza come resistenza all'ingiustizia ma anche come difesa popolare. Per questo la raccomandano. I vescovi francesi esprimono in proposito delle riserve: da un lato la non violenza non può essere fatta propria dallo Stato che ha per compito anche la difesa, s'intende armata, dall'altro le tecniche non violente non sembrano ancora convincenti fino a render inutile il ricorso alla difesa armata. Ma a lungo termine i non violenti, non avranno forse ragione?

Sul versante più propriamente politico, la pace richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell'arginare le possibili sopraffazioni. Era gia' questo l'auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite nel 1965: "Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri vengano istituiti ...Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un'autorita' mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?".

7. Conclusione

L'itinerario che abbiamo compiuto con la guida del Magistero della chiesa ci ha condotti a individuare con chiarezza l'evoluzione che è intervenuta nel valutare la guerra e gli armamenti. Anche il nostro arcivescovo, nel Discorso per sant'Ambrogio del 1983 ha ripercorso gli interventi del Magistero della chiesa in materia di guerra e pace ricavandone queste indicazioni: "In questi interventi della chiesa vedo emergere sempre più chiaramente quell'aspetto critico e progettivo della liberta' che viene favorita dalla fede. Dal punto di vista critico è importante cogliere l'evoluzione che è intervenuta nel giudicare la guerra e gli armamenti. Prima delle armi nucleari e chimiche il principio della legittima difesa poteva in certi casi condurre a parlare di guerra giusta. Ora invece si è convinti della tragica inutilita' e immoralita' di una guerra condotta con i nuovi tipi di armamenti. Semmai v'è ancora chi legittima in certi casi e a certe condizioni non l'uso ma il possesso di armi nucleari a scopo di dissuasione contro ingiuste aggressioni, finchè altre forme dissuasive non siano concretamente praticabili, e mentre si conducono avanti serie iniziative di dialogo e trattative sincere. Dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi ulteriori... Intanto occorre che l'opera critica contro il male sia accompagnata da un'opera progettiva, che dia una consistenza nuova alla pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione". In tale linea progettiva: una ricerca di giustizia, di eguaglianza, di solidarieta', il potenziamento del dialogo, dei sistemi democratici, degli organismi di controllo internazionali. La stessa dissuasione dovrebbe fondarsi non gia' sulla minaccia rappresentata dagli arsenali, bensì su quelle risorse ben più degne dell'uomo che sono la solidarieta' internazionale, le sanzioni giuridiche, l'isolamento di chi fa ricorso alla prepotenza e alla forza. Rassegnarsi alla logica della dissuasione armata vuol dire accettare la spirale perversa degli armamenti e finire in una trappola mortale per l'umanita'. Quanto al disarmo, vi è convergenza circa la necessita' di disarmo bilaterale, controllato. Ma occorre prepararlo anche con con rischi calcolati che spianino la via al disarmo.

Dal punto di vista progettuale, accanto alla proposta di studiare forme efficaci di difesa non violenta, tecniche e addestramenti di difesa civile non violenta, sta il riconoscimento del valore della obiezione di coscienza, la denuncia di certe forme di ricerca scientifica subalterne a logiche di distruzione, lo scandalo rappresentato dal divario crescente nord-sud, alimentato dal commercio delle armi. Sta soprattutto l'appello alla mediazione politica come strumento di composizione dei conflitti.

La posizione della chiesa ci sembra segnata da una polarita' che non è astuto gioco di compromesso: proclamazione del valore della pace e calcolo del possibile. Il giudizio etico non si limita a proporre istanze radicali, utopico-profetiche, si impegna altresì a mediarle entro le condizioni storiche e politiche concrete. Tale polarita' rispecchia la struttura della coscienza umana: istanza capace di riconoscere valori assoluti e al tempo stesso istanza storicamente situata. Richiamare la coscienza a tali valori con l'impegno educativo e intervenire sulla complessita' storica-nella quale la coscienza è situata— con il lavoro politico: ecco il duplice orizzonte per coloro che vogliono essere costruttori di pace.

 

prof. don giuseppe grampa

 

 

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milano, luglio 1993

Lettera di congedo dal Servizio Civile

indirizzata al giovane raffaele coluccia

da parte del Direttore della Caritas di Milano don Virginio COLMEGNA.