Quaderni del Pedagogico

La lezione del Novecento (1)

 

  

 

 

Un secolo

carico

di tragedie

e di

speranze

 

  

Orazio Pizzigoni

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

 

Questi quaderni si propongono di mettere a fuoco le questioni di maggiore peso e significato che il Novecento, un secolo terribile e insieme, affascinante, ci ha proposto. Alla vigilia del Duemila, si impone una riflessione approfondita, libera da schemi ideologici e culturali, aperta sulle ragioni che hanno caratterizzato speranze, sogni, illusioni. Con una preoccupazione fondamentale: quella di capire meglio la lezione che il nostro secolo, così carico di problemi, ci ha lasciato e attorno alla quale le nuove generazioni in modo particolare saranno impegnate nel tentativo sicuramente difficile ma non disperato di disegnare prospettive di sviluppo civile per tutti.

 

E' convinzione nostra ‑tante volte ribadita in incontri, confronti, convegni‑ che sia impossibile dare corso a progetti adeguati alle esigenze del nostro tempo senza una rilettura rigorosa dei percorsi di un secolo, che, come non mai nella storia dell'umanità, ha esaltato e, nello stesso tempo, mortificato l'uomo.

 

Le note che proporremo in questi quaderni dedicati dal "Pedagogico" al Novecento vogliono stimolare questa rilettura da parte di studenti e insegnanti (ma non solo) in modo da coglierne per intero il messaggio. Fuori di schemi culturali che risultano spesso insufficienti a spiegarne ‑almeno secondo noi‑ il senso.

 

Milano, aprile 1998

L’Istituto Didattico Pedagogico della Resistenza

  

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Fra tragedie e speranze

 

Un secolo fortemente caratterizzato il Novecento: dalla violenza ma anche dalla sua universale condanna; dall'affermazione di regimi autoritari ma anche dalla loro sconfitta; dai nazionalismi più sfrenati ma anche dall'avvio di processi di integrazione sovranazionale; dalla difesa degli interessi particolari ma anche da una concezione solidaristica che tende ad investire l'intero pianeta; da forme di governo locali, chiuse in se stesse, ma anche dalla costituzione di organismi investiti del compito di sovrintendere, con le ragioni dei singoli, quelle più generali di tutta l'umanità; da una utilizzazione delle risorse naturali volta a tutelare i privilegi di minoranze ma anche dall'assunzione di una politica di difesa e di sviluppo che tenga conto delle esigenze universali e che, quindi, avvii rapporti di collaborazione in nome di una più razionale gestione dei beni presenti sull'intero pianeta.

Un secolo, nel male e nel bene, dunque, decisivo che ha, fra contraddizioni e drammi, gettato le basi per l'avvio di nuovi rapporti internazionali, improntati a una visione globale degli interessi in gioco.

Un secolo dove la dignità di ogni uomo è stata assunta, almeno come aspirazione, a metro di misura dei comportamenti singoli e collettivi e che si sta affermando, superando resistenze conservatrici presenti ovunque e in ogni strato della società, come una delle ragioni, se non proprio la ragione principale, dell'impegno di milioni di uomini e di donne e che trova una vasta eco nelle coscienze delle nuove generazioni, alimentando la speranza nella possibilità di costruire condizioni civili di sviluppo.

Un secolo che ha visto nascere e tramontare sogni e illusioni circa la possibilità di disegnare nel breve tempo una società, diversa nel rispetto dei diritti della persona umana e che, alla vigilia del Duemila, cerca, all'interno di una crisi devastante di valori, di recuperare non solo la speranza in una più dignitosa e civile convivenza umana ma anche, ammaestrata dal passato, la possibilità di ancorare a questa speranza progetti non illusori di sviluppo.

 

 

     Un secolo di violenze

 

Quello che emerge subito anche dalla lettura veloce di questo secolo sono le manifestazioni di violenza, di crudeltà, di barbarie che hanno segnato la storia di singoli, di gruppi, di popolazioni. Dove gli interessi particolari, volgari, legati a comportamenti egoistici, si sono intrecciati con le "ragioni" di ideologie autoritarie, le quali alla violenza si sono affidate per affermarsi.

Forse mai, almeno nella dimensione che ci e dato oggi di considerare, la violenza è risultata nella storia dell'umanità così estesa. Il passato certo non é, sotto questo profilo, confortante. L'umanità ha subito spesso le prepotenze dei più forti, dei più organizzati o dei meglio attrezzati. Il suo cammino è lastricato da tante vite spezzate. Il dolore ha accompagnato in ogni momento l'esistenza di milioni di uomini, di donne, di bambini, vittime spesso innocenti di queste prepotenze. I cronisti e i poeti, che ci hanno tramandato spezzoni di vicende anche lontane (da Omero a Erodoto a Tucidide a Cesare), ce ne hanno fornito testimonianze precise o, almeno, una chiave di lettura che consente di leggere fra e oltre le righe. Se, naturalmente, non ci si lascia frastornare dalle gesta dei principali protagonisti che, spesso, a causa di una lettura affrettata e superficiale, impediscono di gettare lo sguardo su chi si muove sul palcoscenico della storia senza avere diritto a una menzione, quasi si trattasse di comparsa priva di caratteristiche, sentimenti, interessi umani.

Il secolo Ventesimo si segnala, dunque, per una particolare ferocia, ma anche per alcuni motivi che gli sono peculiari: la sensibilità intanto di avvertire le vicende di ognuno e di tutti come meritevoli di attenzione, considerando ognuno e tutti figli di Dio allo stesso modo, risultato di una cultura che trova nel cristianesimo, nelle rivoluzioni liberali e nell'egualitarismo socialista i suoi punti di riferimento, e poi la capacità di tenere il conto, disponendo di una strumentazione che consente di farlo, di tutte le vittime della violenza, a qualunque titolo provocata. Se oggi possiamo stimare il numero dei morti di tutte le guerre che hanno insanguinato il pianeta nel Novecento; se riusciamo, sia pure con una certa approssimazione, a contabilizzare le vittime dei regimi autoritari che si sono imposti per periodi più o meno lunghi; se siamo in grado di fornire una cifra (quattro miliardi?) sui morti di fame nel secolo che vanta i maggiori progressi nella storia dell'umanità di cui un grande numero bambini (ottocento milioni?) è grazie a questa capacità contabile. Un dato non solo tecnico ma politico e culturale perché provoca la sensibilità del nostro secolo e, quindi, ne stimola la reazione. Dal male, insomma, di cui viene definita la grandezza e, quindi, il suo carattere mostruoso, il bene o, comunque. la propensione al bene quale rimedio a situazioni intollerabili per la coscienza individuale e collettiva. In questo senso possiamo affermare che in nessun altro momento della storia umana si sono registrate tante situazioni negative e, come reazione, tante situazioni positive, al punto da farci definire questo secolo terribile e, nello stesso tempo, affascinante.

 

 

Una guerra dietro l'altra

 

Un secolo punteggiato dalle guerre: grandi e piccole, mondiali e locali, condotte in nome di ragioni universali o di interessi particolari, avendo come protagonisti nazioni intere o comunità ristrette. Un secolo che ha seminato lutti, dolore, lacrime sull'intero pianeta. Le guerre dominano la storia del Novecento, tanto da riuscire difficile, anche con la sofisticata strumentazione di cui disponiamo, a tenerne il conto. Qualcuno lo ha fatto, indicando il numero dei conflitti che ne hanno segnato la storia. Nella memoria e nella cultura delle generazioni che stanno dentro questo secolo due sono però le guerre che trovano, e per estensione e per numero di morti e per le manifestazioni di crudeltà, un posto a parte: la prima guerra mondiale (1914-1918) e la seconda (1939-1945).

La prima guerra mondiale, che si e combattuta in Europa fra, da una parte, la Germania e l'Impero Austro‑Ungarico e, dall'altra, la Francia, l'Inghilterra, la Russia, l'Italia e gli Stati Uniti, ha rappresentato un momento drammatico nella storia di questo secolo. Sui vari fronti hanno perso la vita quasi dieci milioni di giovani. Seicentomila i morti solo in Italia. Combattuta nelle trincee, in quella che è stata tramandata come una guerra di posizione, dove gli eserciti si affrontavano nel tentativo di sopraffarsi, essa si è conclusa con la sconfitta della Germania e la disfatta dell'Impero Austro‑Ungarico piegati dalla forza industriale degli alleati che riuscirono a mettere in campo un potenziale produttivo di gran lunga superiore. Il tentativo della “Triplice” di rovesciare questo rapporto di forze con l'utilizzazione dei gas (l'arma segreta di allora) si dimostrò insufficiente. Nella morsa degli eserciti alleati alla fine Germania e Impero Austro‑Ungarico dovettero cedere. I trattati di pace, sottoscritti fra il 1919 e il 1920, sanzionarono non solo la sconfitta degli eserciti della "Triplice" ma anche la fine dello stesso Impero Austro‑Ungarico. Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Polonia, Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia acquistarono piena indipendenza. L'Austria, chiusa nei suoi confini naturali, fu costretta a cedere all'Italia l'Alto Adige, Trento e Trieste, l'Istria e la Dalmazia. La Germania dovette rinunciare, a favore della Francia, all'Alsazia e alla Lorena. E a buona parte delle sue colonie africane. La Turchia che si era schierata con la "Triplice" fu costretta a cedere all'Italia le isole del Dodecaneso con Rodi in testa.

La grande carneficina, esaltata dai vari nazionalismi come un momento necessario per rifare in termini più giusti, i confini dell'Europa si rivelerà ben presto carica di errori, di contraddizioni, di problemi nuovi e, per certi versi, ancora più gravi di quelli che avevano determinato, a giudizio degli storici ufficiali, lo scoppio del conflitto. Dopo venti anni, la drammatica verifica della seconda guerra mondiale portava all'attenzione generale una realtà attraversata da tensioni infinite. Il vecchio continente trascinerà nel conflitto il mondo intero, spostando i fronti ovunque: in Africa, nell'Atlantico, nel Pacifico, nell'Oceano Indiano, con il coinvolgimento di Cina, Giappone e di tutto il Sud Est Asiatico. Con un bilancio finale drammatico, dove accanto ai caduti sui molti fronti si dovranno calcolare le vittime civili, le distruzioni di migliaia di città e villaggi, le atrocità dei lager, il genocidio compiuto contro gli ebrei senza distinzioni fra uomini, donne, bambini, giovani e vecchi. Una vera e propria strage, che trova ancora oggi un'eco nella coscienza. e nella memoria di un'umanità sgomenta, stupita, commossa di fronte alle testimonianze di chi è sopravvissuto a questa tragedia collettiva e ai documenti che gli strumenti moderni della comunicazione sono in grado di fornire a futura memoria.

 

 

Due guerre simili e insieme diverse

 

La prima e, la seconda guerra mondiale così simili per le vittime provocate, per il dolore seminato, per le lacrime versate e, nello stesso tempo, così diverse per le novità introdotte non solo sotto il profilo militare con la utilizzazione di nuove tecniche di morte ma politico con il coinvolgimento pressoché totale delle popolazioni che durante il secondo conflitto mondiale sono state costrette spesso a impegnarsi direttamente risolvendo le tradizionali divisioni fra militari e civili, meritano una lettura approfondita. Su queste differenze spesso, per non dire quasi sempre, si sorvola. Eppure qui stanno le maggiori novità, politiche e culturali di questa seconda metà del Novecento. La vittoria degli alleati nel 1945 infatti non ha segnato solo la sconfitta delle concezioni autoritarie del nazismo e del fascismo ma ha aperto un nuovo capitolo nella storia della democrazia moderna nel senso della partecipazione. L'impegno di milioni di civili, uomini e donne, nella lotta contro il nazismo e il fascismo in tutto il mondo; la vasta partecipazione popolare ai movimenti di resistenza; il rifiuto netto di logiche autoritarie, rivolte a mantenere ai margini della vita politica la società civile, e, soprattutto, la consapevolezza sempre più precisa e definita che in realtà complesse come le nostre sia impossibile dare soluzione positiva ai problemi senza l'intervento attivo della gente hanno determinato situazioni che impongono il continuo arricchimento del tessuto democratico.

 

 

La crisi della democrazia moderna

 

La crisi della democrazia moderna, che tante manifestazioni rivela ovunque, è l'espressione della incapacità dei gruppi dirigenti di adeguare, sotto il profilo istituzionale, il sistema democratico alle esigenze del nostro tempo. La seconda guerra mondiale e i movimenti di resistenza hanno infatti inciso nel profondo della vita politica, aprendo a nuove e straordinarie prospettive la gestione della vita pubblica. I movimenti, le idee, le speranze, i sogni, le illusioni che hanno percorso il Novecento fin dall'inizio hanno fatto emergere, sia pure da posizioni diverse e in un intreccio in cui spesso alle affermazioni di principio hanno fatto seguito pratiche che ne smentivano clamorosamente l'assunto (si pensi agli ideali socialisti e, in modo particolare, all'esperienza di potere dei comunisti), sono stati lievito di una più definita presa di coscienza dei problemi e, soprattutto, della necessità di porvi rimedio attraverso iniziative specifiche. L’istituzione, subito dopo la prima guerra mondiale, della Società delle Nazioni (1919) e la fondazione, subito dopo la seconda, dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (1945) riassumono questa esigenza, indicando gli strumenti attraverso i quali tentare di comporre le vertenze internazionali, intervenire nei casi di gravi sciagure, organizzare la solidarietà a favore delle popolazioni colpite da disastri naturali o da conflitti locali. Come siano finiti questi tentativi risulta con chiarezza dalla lettura delle principali vicende del nostro secolo.

 

 

La Società delle Nazioni

 

La Società delle Nazioni si è dimostrata impotente di fronte ai pericoli di guerra. Non solo. Le nazioni democratiche, che ne avevano sollecitato la costituzione nella convinzione che fosse possibile impedire il sorgere di nuove ragioni di conflitto, non riuscirono a bloccare i processi di involuzione autoritaria in molti Paesi europei. Italia, Germania, Spagna, Romania, Ungheria instaurarono regimi totalitari che fecero tabula rasa dei diritti civili, trovando spesso la complicità, a volte esplicita a volte nascosta, proprio da parte dei gruppi dirigenti dei paesi democratici che avrebbero dovuto vegliare sull'Europa, impedendo la ricostituzione di una Germania militarmente forte alla ricerca di una rivincita sul campo. Lo studio di questo fallimento può consentire non solo di chiarire tutte le responsabilità alla base di esso ma anche di capire perché i sentimenti di pace che la grande carneficina aveva stimolato, illustrando anche a chi non era stato al fronte gli orrori della guerra (si pensi al film di Mileston, “All'Ovest niente di nuovo”) furono travolti con facilità.

Eppure, nonostante questo fallimento, la Società delle Nazioni ha rappresentato un punto di riferimento importante proprio perché si è fatta interprete di un diffuso, anche se a volte confuso, bisogno di pace. Il fatto che subito dopo il secondo conflitto mondiale, essa venisse ricostituita sotto l'egida dell'ONU marca un orientamento in questo senso. Che neppure quasi mezzo secolo di guerra fredda (dal 1947 al 1989) ha rimesso in discussione. La terza guerra mondiale, agitata spesso come minaccia incombente, non è scoppiata. Anche se il confronto fra i due grandi schieramenti (uno arroccato attorno al Patto Atlantico, l'altro al Patto di Varsavia) ha preso altre vie, alimentando i conflitti locali (la guerra di Corea, il Vietnam, i conflitti nel Medio Oriente fra israeliani e arabi), le guerriglie (nel Sud America, in particolare), il terrorismo con la partecipazione attiva dei servizi segreti. O, come si suole dire con un eufemismo, di alcune schegge impazzite di essi.

Le organizzazioni internazionali, allora, incapaci di farsi carico dei problemi che la tumultuosa crescita registrata nel Novecento ha fatto emergere? Anche l'ONU, che pure ha avuto a disposizione l'esperienza della Società delle Nazioni, destinata alla resa? Il mondo, nel momento in cui ci si avvia verso il Terzo Millennio, lasciato a se stesso, alla mercé degli interessi particolari, delle grandi lobby economiche, delle famiglie che contano e che, in virtù dei poteri di cui dispongono, hanno dominato la storia pure nelle società rette da regimi democratici? I problemi, i drammi, le tragedie che abbiamo vissuto in questa seconda metà del secolo e che stiamo ancora vivendo (si pensi alle stragi d'Algeria) resteranno senza risposta? Quali le ragioni che hanno impedito e impediscono all'ONU di intervenire in situazioni che offendono la coscienza del mondo? La composizione degli interessi particolari, difficile e tormentata, ostacolo sulla strada di un governo mondiale? E poi, la sconfitta delle società autoritarie sanzionata nella seconda guerra mondiale non ipotizza forse la possibilità per l'Organizzazione delle Nazioni Unite di ripristinare, là dove sono stati conculcati, i diritti civili? E se sì, almeno in teoria, come tradurre questo orientamento in atti concreti? Ecco alcuni degli interrogativi che il Novecento ci propone e che attendono una risposta. La sapremo dare?

 

Si sono determinate ‑ecco questo l'interrogativo di fondo‑ le condizioni perché le aspirazioni, le speranze, gli orientamenti emersi durante il grande conflitto contro nazismo e fascismo trovino una loro rappresentazione nella vita dei popoli?

 

 

Alla democrazia non ci sono alternative

 

Il Novecento, attraverso esperienze drammatiche quando non addirittura tragiche, ha dimostrato che alla democrazia non ci sono alternative. E' questa sicuramente la lezione più importante che possiamo ricavare dalla lettura del nostro secolo. Le società autoritarie, quali siano i loro contenuti, hanno rivelato la loro incapacità di fondo a dare risposte ai problemi che si sono via via accumulati sulla strada dello sviluppo. Alla lunga, queste società si rivelano fonte di contraddizioni insanabili a cui si cerca di porre rimedio attraverso scelte che assumono, come è risultato evidente, un carattere violento. Il disastro, con il sacrificio di milioni di uomini, di donne, di bambini, è l'inevitabile conclusione di queste esperienze. Ecco perché alle insufficienze, alle contraddizioni, ai limiti della democrazia è possibile rispondere in un solo modo: con la democrazia. Il crollo del fascismo e del nazismo durante la seconda guerra mondiale e, quindi, in seguito di quasi tutte le altre esperienze autoritarie in Europa e negli altri continenti sta lì a provarlo in modo inequivocabile. Ma per essere convincente e adeguata alle esigenze di società in rapido sviluppo, la risposta democratica non può affidarsi a schemi e a criteri del passato. La lezione del Montesquieu, incentrata sulla divisione dei poteri e sulle rappresentanze parlamentari, non basta più. C’è bisogno di una democrazia che non si limiti a sostituire un gruppo dirigente con un altro ma che, facendo leva sulla società civile, in rapporto alla maturità di questa società, fornisca gli strumenti (gli istituti) per rendere praticabile la partecipazione dei cittadini. La Resistenza questa partecipazione, sia pure in modo forse non preciso e addirittura confuso, aveva ipotizzato. Ma se il progetto di architettura istituzionale di una democrazia partecipata non è stato definito nei particolari (né poteva esserlo nel corso della seconda guerra mondiale) chiaro risultava però, dai fatti prima che dalle enunciazioni, l'orientamento verso processi volti al coinvolgimento della società civile. Purtroppo questa prospettiva invece di essere perseguita con tenacia ha trovato sul suo cammino resistenze tenaci, addirittura feroci, da parte non solo della destra conservatrice ma anche della sinistra che non aveva escluso, per ragioni ideologiche, il possibile ricorso per l'affermazione delle proprie ragioni a soluzioni autoritarie. La porta aperta dalla Resistenza si è così ben presto richiusa alle spalle delle grandi masse popolari che durante la lotta al fascismo e al nazismo avevano rivelato una volontà di protagonismo nuovo e sicuramente straordinario nella storia dell'umanità.

Questo orientamento, così preciso e definito allora, di fronte ai guasti delle società democratiche, di cui si colgono le manifestazioni in ogni campo, troverà credito nella coscienza delle nuove generazioni? Il Novecento si chiuderà con il recupero di un'esperienza, quella resistenziale, che ha segnato in profondità il suo corso? Il messaggio lasciato dai resistenti troverà stimoli nuovi o finirà per essere sepolto sotto i colpi di chi non intende modificare le vecchie logiche di potere con la complicità di una cultura che sembra privilegiare alle analisi approfondite la retorica celebrativa?

 

 

Sotto il rullo del revisionismo storico

 

C'è in atto un processo di revisione che tende a rivalutare chi si è schierato durante il secondo conflitto mondiale dalla parte del fascismo e del nazismo o, comunque, dei loro eserciti. Quasi si trattasse non di una scelta di campo fra due concezioni del mondo, fra due modi di intendere i rapporti fra gruppi dirigenti e società, fra una società che si affida alla tolleranza, alla solidarietà, al rispetto della diversità considerata fonte di ricchezza e una società che invece non sopporta altre idee se non le proprie, che predica la violenza come dato fisiologico, che alla solidarietà verso i più deboli privilegia la logica della selezione naturale dove il più forte ha il diritto di prevalere, che mortifica l'umanità in nome di ideologie totalitarie.

Le interpretazioni della seconda guerra mondiale fuori di questo contesto rischiano di mettere tutti sullo stesso piano: chi stava dalla parte della libertà e della democrazia, e chi stava dall'altra, sfumando confini che, al contrario, per i più risultarono allora netti. In nome di ragioni umanitarie ‑la pietas per i vinti; il rispetto di chi si è battuto in buona fede; la comprensione per i sentimenti di chi ha subito la sconfitta‑ si è cercato e si cerca di stravolgere la storia, così come si è svolta, facilitando non il recupero dell'umanità di chi ha fatto una scelta sbagliata (riconosciuta quasi sempre subito dopo la conclusione del conflitto) ma le ragioni di fondo, politiche, culturali, ideali, di chi quella scelta aveva compiuto.

Questo revisionismo, perseguito con tenacia (a volte, addirittura con accanimento) ha trovato spazio anche per le insufficienze culturali di chi non si è impegnato in un'analisi più approfondita della Resistenza e delle novità da essa introdotte nella vita delle società democratiche. Sul coinvolgimento nei movimenti di Resistenza (in Europa ma non solo) delle grandi masse popolari si è poco insistito. E quando lo si è fatto, è stato solo per metterne in luce "l'eroismo" "l'abnegazione", lo "spirito di sacrificio" di singoli e di gruppi e non il fatto in sé, vale a dire una partecipazione che ha segnato in profondità la democrazia moderna, aprendola a nuove e più evolute possibilità di affermazione. In questo senso, si può tranquillamente affermare che la vittoria sul fascismo e sul nazismo non ha rappresentato solo la condanna senza appello delle società autoritarie ma anche la messa in mora di una democrazia che si era sino ad allora sostenuta utilizzando le vecchie forme di rappresentanza disegnate dalle rivoluzioni inglese, americana e francese e che, nel momento in cui chiamava all'impegno l'intera società civile, ne ridisegnava il ruolo reclamando un progetto di architettura istituzionale che facesse posto a istituti i quali, concluso il conflitto, consentissero questa partecipazione in tempo di pace. Ci si è preoccupati ‑complici a volte anche i resistenti‑ di riaffermare vecchie logiche che concepiscono il cambiamento solo come cambiamento dei gruppi dirigenti. Ma sempre dentro i vecchi schemi. Gli istituti della partecipazione popolare infatti non hanno trovato posto quasi da nessuna parte. Anche in Italia, dove si è dato vita a una delle costituzioni più avanzate, gli istituti della partecipazione, che fanno riferimento a una concezione decentrata dello Stato, si sono rivelati spesso gusci vuoti (o quasi), come è accaduto con le Regioni, con i Comuni e con i Consigli di quartiere e di zona. Senza che si levasse da parte delle forze politiche che alla Resistenza si ispiravano e si ispirano e delle stesse Associazioni degli ex partigiani una richiesta pressante rivolta a dare contenuti nuovi, attraverso l'arricchimento continuo del tessuto democratico in senso partecipativo, alla vita civile. Quasi che, chiuso il capitolo della guerra, si dovesse anche chiudere quello della partecipazione. Facendo intendere ‑secondo una interpretazione forse esasperata ma certamente non molto lontana dalla verità‑ che le grandi masse popolari sono da apprezzare quando si tratta di morire ma meno, molto meno, quando si tratta di vivere.

Ecco perché, attraverso la rilettura del Novecento, è impossibile non interrogarsi anche sul revisionismo di chi, per ragioni diverse e complesse, ha lasciato in ombra questioni di grande e decisiva importanza non tanto e non solo sotto il profilo culturale ‑la necessità di conoscere un capitolo importante della nostra storia‑ ma politico e civile risultando decisiva la disponibilità di strumenti -le chiavi di lettura- per decidere del presente e del futuro. C'è da domandarsi, di fronte a defaillance politiche e culturali così rilevanti, se il peggiore revisionismo non sia proprio quello di chi, pur avendo militato dalla parte della Resistenza, non ha avvertito (dominato da logiche ideologiche?) l'esigenza di avviare su strade nuove la democrazia. Forse (ma è più che un sospetto) per il timore di mettere in difficoltà il sistema comunista che, forza determinante quando si è trattato di battere le armate fasciste e naziste, non era però disposto ad aprire ad una concezione democratica della società? Qui, anche qui, allora trovano spiegazione i silenzi che hanno accompagnato ‑almeno a sinistra‑ le analisi circa la partecipazione popolare alla Resistenza? Qui affonda le sue radici una rappresentazione ufficiale, che ha avuto largo credito ad Ovest come ad Est, della Resistenza come grande lotta patriottica? O come guerra civile, patriottica e di classe insieme dove le ragioni particolari hanno avuto il sopravvento? Che la Resistenza sia stata anche lotta patriottica non ci sono dubbi in proposito. Ma sicuramente le ragioni "patriottiche" sono state surclassate da altre ragioni: le ragioni della libertà, della democrazia, della giustizia, della tolleranza, della solidarietà che non conoscono confini.

In tutti -o in quasi tutti i resistentiqueste ragioni hanno rappresentato il punto di riferimento decisivo per la loro scelta di campo. La sconfitta del nazismo e del fascismo è stata vissuta come la sconfitta delle società autoritarie. Le ragioni della libertà e della democrazia non si sono forse intrecciate nella coscienza di molti per non dire di quasi tutti (compresi coloro che militavano in formazioni liberali e monarchiche) con le ragioni di giustizia? E' così. Ma ciò non basta per affermare ‑come ha fatto qualcuno‑ che la Resistenza è stata concepita come momento della lotta di classe. Salvo forse per qualche dirigente politico, allevato nei centri dell'emigrazione, legato più ai propri schemi ideologici che ai sentimenti, alle speranze, alle aspettative della gente. Per la stragrande maggioranza dei partigiani, facessero parte di questa o di quella formazione, i valori sui quali impegnarsi non erano diversi da quelli messi sulle bandiere degli eserciti alleati.

 

 

Una più precisa rilettura della Resistenza

 

Ma proprio il carattere universale della Resistenza, come grande movimento che ha travalicato i confini etnici, politici, culturali, ideologici, ne impone, alla vigilia del Duemila, la rilettura se vogliamo intendere sino in fondo la lezione del Novecento. La seconda guerra mondiale ha determinato, come abbiamo già rilevato, una rottura nella storia del nostro secolo non solo per la condanna senza appello delle società autoritarie ma per le novità introdotte nella democrazia moderna. Il carattere della guerra con il coinvolgimento della società civile, esposta alla violenza nello stesso modo dei militari al fronte (55 milioni di morti di cui più del 50% civili); il carattere dello scontro imperniato attorno non ai confini "violati dal nemico" o, almeno non solo ad essi, ma attorno ai valori di libertà, democrazia e giustizia; e, soprattutto, l'assunzione di responsabilità precise da parte della gente nei movimenti resistenziali hanno segnato in profondità i processi democratici nel senso della partecipazione. Il fatto che non se ne sia tenuto conto ‑o se ne sia tenuto conto in misura trascurabile‑ non diminuisce l'importanza che il secondo conflitto mondiale ha avuto ed ha per il presente e per il futuro dell'umanità. Di qui la necessità di analisi più rigorose di un capitolo decisivo della storia non solamente italiana ma europea e mondiale, libere da preoccupazioni politiche e ideologiche che si manifestano spesso o nella negazione della verità storica da parte di chi ha combattuto con le armate fasciste e naziste o con l'imbalsamazione retorica di vicende che, anche se stanno nel passato, proiettano nel futuro vicino e lontano, il loro messaggio.

 

 

Le tentazioni autoritarie

 

La difesa della democrazia moderna trova le sue ragioni soprattutto nella capacità delle forze politiche che ne rappresentano la' struttura portante di adeguarne gli istituti in modo da farli corrispondere alle esigenze della società civile. Il diffondersi dopo la prima guerra mondiale di esperienze autoritarie e totalitarie in modo particolare in Europa si spiega proprio con la debolezza delle società democratiche di fare fronte ai problemi vecchi e nuovi emersi in situazioni difficili, esasperate dalle distruzioni provocate, dalla crisi economica, dalle attese determinate in molti settori della popolazione che avevano pagato, in vite umane e in sacrifici materiali, il prezzo più alto. L'idea ‑diffusa da una certa pubblicistica‑ che i regimi autoritari. siano usciti dalle menti malate di qualche avventuriero della politica o dalle suggestioni di filosofie tese a reclamizzare la necessità di poteri forti, affidati a ristretti gruppi o, addirittura, a un dittatore, rischia di annebbiare la comprensione di un fenomeno che ha avuto, fra le due guerre, larga diffusione nel vecchio continente. La verità, semplice e, per certi aspetti, anche banale è un'altra. In realtà questi regimi autoritari anche se hanno i loro riferimenti in alcuni uomini (Mussolini, Hitler, Franco tanto per fare alcuni esempi) e movimenti (il fascismo, il nazismo, il franchismo) sono il prodotto dei limiti, delle insufficienze, delle debolezze delle società democratiche le quali, divise al loro interno, si sono dimostrate incapaci di dare risposte ai problemi che tormentavano vasti settori della società civile. E in effetti, anche se la violenza dei regimi autoritari ha giocato un ruolo importante nella loro ascesa, va anche detto che essi sono riusciti a dare soluzione ad alcuni di questi problemi, con particolare riguardo alla disoccupazione, all'inflazione, all'ordine pubblico, raccogliendo in alcuni momenti larghi consensi.

La democrazia allora sempre in pericolo, assediata com’è dai molti e diversi problemi che lo sviluppo induce? L'autoritarismo, in forme magari nuove ma non per questo meno limitative delle libertà civili, in agguato? Le conquiste sanzionate dal sacrificio di milioni di uomini, di donne, di giovani rischiano, per la fragilità di un reticolo democratico che non sopporta il peso di una domanda di partecipazione in rapida espansione, di essere spazzate via o di subire un drastico ridimensionamento?

La rilettura del Novecento, anche sotto questo profilo, risulta importante e decisiva se naturalmente non ci si limita ad utilizzare i tradizionali strumenti di analisi dentro i cui schemi si finisce, lo si voglia o no, per restare prigionieri e, quindi, nella impossibilità di coglierne per intero la lezione.

 

In questo senso, la seconda guerra mondiale rappresenta una cartina di tornasole decisiva, fornendo i mezzi non solo e non tanto per la contabilizzazione delle perdite (una tragedia immensa) ma per individuare le vie di uscita da situazioni che, se non vengono gestite con una strumentazione adeguata, possono, nel viluppo di altre contraddizioni, generare nuove tragedie.

 

 

Il sistema comunista

 

L'ascesa e il crollo del sistema comunista (fra il 1917 e il 1989) prova del nove del fatto che alla democrazia non ci sono alternative? Il tentativo di dare risposte ai problemi del nostro tempo, risolvendo di colpo, attraverso una rivoluzione sociale radicale, diseguaglianze, contraddizioni, cause di povertà materiale e spirituale, ha trovato, dunque i suoi limiti e le principali ragioni del suo crollo nella mancanza di un progetto istituzionale adeguato all'impegno? La liquidazione dei Soviet, indicati come una forma ‑la più avanzata?‑ di democrazia diretta alla base delle degenerazioni autoritarie del sistema? Ma era possibile, fuori di una concezione democratica generale dei rapporti fra i vari poteri dello Stato, affermare momenti di democrazia diretta? Nella sostanza, si capisce, e non nella forma. I Soviet sono sopravvissuti ‑è vero‑ ma solo come espressione formale di uno Stato che è ben presto degenerato in uno dei regimi autoritari più feroci, anticipando addirittura le manifestazioni più brutali del nazismo, con le deportazioni di massa, i gulag, l'eliminazione fisica di tutti gli oppositori, le persecuzioni. C'è da domandarsi come mai, oggi, nel momento in cui si cerca di rileggere le principali vicende del Novecento, non trovino posto, accanto ai campi di eliminazione nazisti, anche le repressioni staliniane che hanno fatto scuola pure fuori dell'Unione Sovietica, in Europa, in Asia, in America e che hanno avuto un'eco pure nei movimenti di liberazione africana. 1 partiti comunisti dell'Occidente, compresi quelli che si sono segnalati per percorsi diversi, aperti verso soluzioni democratiche, sembrano avere rimosso questo capitolo della storia, ritenendo sufficiente manifestare su di esso il proprio giudizio negativo. Annegando in questo giudizio non solo le nefandezze di chi ne porta la diretta responsabilità ma anche l'impegno generoso di milioni di uomini, di donne, di giovani che si sono battuti ‑e molti sono morti‑ per l'affermazione degli ideali socialisti. Anche loro, questi uomini, queste donne, questi giovani che spesso sono stati fra le vittime della ferocia staliniana, primi a pagare con la vita e fra sofferenze inenarrabili il loro rifiuto delle logiche autoritarie del sistema, anche loro da seppellire sotto questo frettoloso giudizio? Un'esperienza tanto drammatica, nata per alimentare speranze e sogni, non è meritevole di attenzione e di studio? Come è possibile chiudere un capitolo di storia che ha attraversato il secolo intero senza interrogarsi sulle cause che hanno determinato la fine di tante speranze e di tanti sogni?

Anche perché, alla vigilia del nuovo millennio, si stanno affacciando all'attenzione generale una infinità di problemi nuovi che richiedono grande coraggio e una capacita progettuale straordinaria.

 

Il Novecento, secolo terribile e, nello tesso tempo affascinante, si sta concludendo lasciandoci in eredità un patrimonio che, nel male e nel bene, va considerato con attenzione e dove, sollecitati da nuove e acutissime contraddizioni, sembra ci sia spazio di nuovo per l'utopia.

 

 

La crisi del Welfare State

 

Una democrazia più ricca, che disponga di un fitto reticolo di istituzioni per la partecipazione, nello spirito della Resistenza durante la quale la società civile ha dato larga prova del suo senso di responsabilità., rappresenta, alla fine del Novecento, una necessità per la costruzione di prospettive di sviluppo nella libertà. Senza disporre di questo reticolo, da aggiornare sulla base della domanda di partecipazione della stessa società civile, riesce difficile, per non dire impossibile, dare risposte in positivo al nuovi problemi indotti dallo sviluppo. Molte delle conquiste realizzate nel corso del secolo rischiano di essere messe in discussione da questi problemi. La crisi della società del benessere (il welfare state) lo sta ampiamente dimostrando. Due sono le questioni che, in modo particolare, stanno determinando difficoltà crescenti: il sistema sociale con particolare riferimento all'assistenza sanitaria e al pensionamento e i livelli di occupazione.

 

Il sistema sociale rischia infatti di saltare in aria a causa di un'espansione della spesa per la sanità e per le pensioni. Ma se per la sanità il ridimensionamento delle prestazioni gratuite per alcuni settori della società rappresenta, almeno entro certi limiti, una soluzione praticabile, per le pensioni il discorso risulta più complesso per l'ampiezza della spesa, l'aumento della vita media e, soprattutto, perché stanno venendo meno le ragioni per andare in pensione. In una organizzazione produttiva che privilegia sempre di più il lavoro intellettuale, si capisce sempre meno il pensionamento di uomini e donne che si trovano al livello massimo di professionalità. La capacità di lavoro, infatti, di chi ha raggiunto i limiti di età per il pensionamento risulta nella carriera professionale di un lavoratore -salvo qualche caso‑ massima. La vita media tende ad aumentare. Nel 1998 è stata calcolata in 76 anni. Nel 2005 dovrebbe toccare gli 86 per raggiungere, almeno secondo le previsioni dei biologi, addirittura i 120‑140 anni nel 2020. Sono previsioni che dovrebbero indurre a riflettere non solo sui limiti di età per il pensionamento ma sul pensionamento stesso, tenuto conto che, con tutta probabilità alla fatica fisica, così come l'abbiamo intesa sino a qualche decennio fa, sarà legato un numero sempre più ridotto di lavoratori. L'abolizione del pensionamento è allora alle porte? Ma se e così quali sono le situazioni che si determineranno sul mercato del lavoro? Già oggi, la ricerca di un'occupazione sta diventando problematica per i giovani. La presenza nell'organizzazione produttiva e dei servizi degli anziani non finirà per fare esplodere situazioni già oggi ai limiti del dramma?

Anche perché -ecco un altro dei problemi acuti che il Novecento lascia in eredita alle nuove generazioni‑ l'impiego su larga scala delle moderne tecnologie che all'elettronica' e all'informatica fanno riferimento riduce drasticamente il numero dei lavoratori impiegati. Le nuove tecnologie, in grado di immettere sul mercato un grande numero di prodotti e di servizi, con sempre meno lavoratori, ha messo in crisi alcuni dogmi sui quali si è retto nel nostro secolo lo sviluppo e, secondo i quali, l'espansione della base produttiva avrebbe comportato anche un'espansione dell'occupazione. La domanda di merci e di servizi non implica obbligatoriamente oggi un'area produttiva più ampia. Basta, per soddisfarla, disporre di tecnologie in grado di fare velocemente e senza soluzione di continuità i prodotti (o i servizi) richiesti con una partecipazione modesta ‑anche se qualificata‑ di professionisti con il compito di controllare il buon funzionamento delle macchine. Infatti, la ripresa delle economie occidentali, segnalata alla fine di questo secolo, non ha comportato un aumento degli occupati. Anzi, soprattutto nelle grandi aziende, il numero dei lavoratori impiegati è diminuito. Il numero dei disoccupati nell'Europa Comunitaria ha raggiunto, pure in un fase di espansione del mercato, i 20 milioni. E tende a crescere. Tanto da indurre a credere che il lavoro dipendente abbia toccato il tetto nel Novecento. Assisteremo allora al crollo dell'occupazione nei prossimi decenni? E che cosa accadrà delle nuove leve del lavoro? Dove e come saranno impiegate se anche l'amministrazione pubblica tende a ridurre drasticamente gli impieghi, sostituiti anche qui dalle macchine che dimostrano di sapere fare, con più precisione, una volta impostate, il lavoro degli uomini e delle donne? C'è da prevedere allora un esodo massiccio verso il lavoro autonomo? L'artigiano, che ha dominato l'economia sino al sorgere delle industrie manifatturiere, tornerà a giocare un ruolo determinante nell'economia di domani? Ma fino a che punto? In una realtà che vede diminuire il numero degli occupati e, quindi, le fonti di reddito, non si ridurrà anche la domanda di beni? E allora che cosa accadrà? Se nessuno compra, chi acquisterà le merci e i servizi immessi in grande quantità sul mercato? La riduzione dell'orario a 35 ore settimanali, ipotizzata da alcuni Paesi europei, può rappresentare una soluzione? Non c'è il rischio per i Paesi che l'applicheranno di vedere ridotte le proprie capacità di stare sui mercati. travolti dalla concorrenza di chi può fare leva su costi più bassi?

 

 

Un nuovo corso per lo sviluppo?

 

L'intreccio dei problemi che il Novecento presenta, alcuni dei quali assolutamente nuovi, indotti per esempio come abbiamo visto dall'utilizzazione su larga scala di modernissime tecnologie, ipotizza allora un diverso modo di intendere lo sviluppo? Si apre, nella storia dell'umanità, la ricerca di un corso nuovo nella vita produttiva, sociale, culturale, attento più alle ragioni dell'uomo che a quelle di mercato? O, almeno, le ragioni del mercato dovranno essere ripensate in funzione delle esigenze della società umana che, se non vuole andare incontro a disastri tremendi, deve darsi regole compatibili con i livelli di sviluppo raggiunti? Utilizzando le risorse disponibili, comprese quelle umane, in modo più razionale, nell'interesse generale? Interrogativi sicuramente impegnativi proprio per la complessità dei problemi che sollevano. Ma non gratuiti. Riesce difficile, infatti, eluderli. In questo senso la stessa richiesta di riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore ne segnala l'attualità. Anche se si tratta di scelta dettata più dal passato, dalle sue storie, che non dal futuro. Nella convinzione che ci si possa ancora comportare, nella individuazione delle soluzioni, come nel corso del XX Secolo.

 

 

La rivincita dell'utopia

 

Alla fine della sua corsa, il Novecento sembra riproporre le speranze e i sogni che ne hanno accompagnato la nascita e che a milioni di uomini e di donne hanno fatto intravedere prospettive di sviluppo ancorate alle esigenze di tutta l'umanità.

L'utopia si sta, dunque, prendendo le sue rivincite?

Il fatto di dovere ridisegnare l'organizzazione stessa della società, assediata da problemi che non lasciano scampo, non rappresenta forse il tentativo di recuperare ragioni che sono state alla base di movimenti rivolti a esaltare i grandi valori di libertà, di emancipazione dal bisogno, di eguaglianza?

Il riferimento insistito della Chiesa e, in modo particolare di Papa Woityla, alla dignità dell'uomo non riassume orientamenti, diversi per origine e cultura ma tutti ugualmente tesi a riproporre gli interessi dell'umanità intera al centro dell'attenzione delle generazioni che vivranno l'inizio del Terzo Millennio?

I valori che, nella crisi generale di questa fine di Millennio sembravano uscire devastati dalle ferree leggi di mercato, assunto (e non si sa bene perché) da tutti ‑a destra e a sinistra‑ come regolatore principe dei rapporti fra gli uomini, riassumono un ruolo decisivo, risospinti sulla scena della storia non dalle ideologie ma dagli stessi meccanismi di sviluppo che non tollerano più le contraddizioni che questi meccanismi inducono?

 

 

La democrazia partecipata sola ancora di salvezza?

 

Ma a chi affidare il compito di mettere mano ai problemi che si sono affastellati lungo il percorso del Novecento e di cui, a volte, non c'è riscontro nella storia e nella cultura del passato?

Chi dovrà assumersi la responsabilità di mettere a punto un progetto che, nel rispetto pieno del patrimonio di valori accumulato sin qui, dove libertà, democrazia, giustizia, solidarietà, tolleranza trovano largo spazio nella coscienza dei singoli e collettiva, orienti lo sviluppo verso nuove e straordinarie prospettive?

Non ci troviamo forse, come è accaduto durante la seconda guerra mondiale, di fronte al pericolo rappresentato dalla barbarie dei regimi autoritari, nella urgente necessità di fare di nuovo appello alla società civile, alla gente, alle grandi masse popolari invitandole non solo a schierarsi ma ad assumere un ruolo preciso nella costruzione di nuovi criteri di sviluppo?

La partecipazione, allora, come sola ancora di salvezza per le democrazie in crisi, incapaci di risolvere, dentro i vecchi schemi, i grandi problemi del nostro tempo?

Le difficoltà, le contraddizioni, i drammi che si sono accumulati sulla soglia del Terzo Millennio, quali siano i problemi (economici, politici, etici), rivelano che senza il contributo di tutti e, comunque, di settori sempre più vasti e significativi della società civile, è impossibile uscire da difficoltà, contraddizioni, drammi.

Disponiamo di un'esistenza più lunga ma paradossalmente non sappiamo come gestirla.

Disponiamo di tecnologie in grado di moltiplicare la ricchezza ma per settori sempre più vasti si profilano nuovi orizzonti di povertà.

Una gestione più razionale e moderna delle risorse naturali consente di realizzare trend produttivi straordinari, capaci di sfamare l'intera umanità, ma invece di esaltare queste possibilità, gratificando sotto il profilo professionale e morale, chi le utilizza, imponiamo limiti che suonano condanna a chi muore di fame e offesa alla coscienza universale.

Problemi etici (come la moralità pubblica) restano insoluti, nonostante l'impegno della magistratura, per la impossibilità oggettiva di risolvere gli impedimenti determinati dal groviglio di interessi che li generano non disponendo di strumenti adeguati alle esigenze e, soprattutto, di un progetto di architettura istituzionale che consenta alla società civile di assumersene la responsabilità. Risultando chiaro che anche la moralità è problema di democrazia.

 

 

Il ruolo decisivo della scuola

 

Ma come è possibile per la società civile, in tutte le sue componenti, assumersi la responsabilità di problemi che non trovano più posto, per la loro soluzione, nei vecchi schemi culturali? Se il secolo ventesimo ha segnalato situazioni nuove e, per molti aspetti, straordinarie a chi deve essere affidato il compito di affrontarle? Se i vecchi gruppi dirigenti, selezionati secondo criteri che appartengono alle logiche di potere del passato dove decisiva risulta l'origine sociale, familiare, politica o l'appartenenza a lobby di ogni tipo, quali le strade da percorrere per mettere tutti nelle condizioni di disporre degli strumenti culturali necessari per capire, scegliere e decidere?

La scuola sicuramente è la sede più importante per la formazione delle nuove generazioni. L’allargamento della scuola dell'obbligo, la possibilità di accedere a tutti gli ordini dell'istruzione per settori sempre più vasti della popolazione, la disponibilità di una strumentazione sempre più ricca e moderna che consente il collegamento con l'universo rafforzano questo ruolo. Anche se risulta decisivo, ai fini della costruzione di una democrazia partecipata, orientare la scuola diversamente. In questo senso, l'Istituto didattico Pedagogico della Resistenza ha parlato di vera e propria rifondazione della scuola, impostata non più solo come è accaduto sino a ieri per la preparazione dei giovani nelle arti e nei mestieri ma per l'impegno civile, dotandoli di tutti gli strumenti culturali che sono necessari per assumersi, a tutti i livelli, responsabilità pubbliche.

Il futuro delle società democratiche ‑inutile nascondercelo‑ dipende soprattutto dalla scuola dove i giovani maturano una consapevolezza più precisa dei problemi che dovranno affrontare e, quindi, in relazione a questa consapevolezza, anche una più ampia capacità propositiva.

Può darsi che una simile prospettiva dispiaccia a chi ha gestito, nel quadro della democrazia tradizionale, il potere. Il fatto che sul mercato della politica irrompano milioni di giovani preparati renderà più difficile l'affermazione delle vecchie logiche. C’è anche da domandarsi se lo stato in cui versa la scuola pubblica (e non solo in Italia) non dipenda proprio da questa preoccupazione. La difesa accanita del carattere professionale della scuola non regge più, però anche per ragioni interne a questa impostazione. I mutamenti in atto nell'organizzazione produttiva e dei servizi, l'impiego a ritmi sempre più veloci delle nuove tecnologie, la scoperta di sistemi e strumenti assolutamente nuovi vanificano una cultura tutta tesa a fornire una preparazione professionale. La conoscenza appresa a scuola di una macchina o di un impianto risulta spesso, per non dire quasi sempre, vanificata dall'introduzione di nuove macchine e di nuovi impianti quando si entra nel mondo del lavoro. Piaccia o no, anche oggi, se non più di ieri, si impara a lavorare, lavorando. Ammesso ‑e non concesso‑ che le occasioni di lavoro non manchino.

Ecco perché, fatta salva una base tecnico‑scientifica ancorata alle esigenze dell'organizzazione produttiva e dei servizi, la scuola dovrà preoccuparsi soprattutto di preparare dei cittadini, in grado di muoversi all'intero di società sempre più complesse.

Ne va del futuro della democrazia.

Almeno a noi così sembra. La lezione del Novecento è, a questo proposito, chiara.

Ecco perché ne sollecitiamo la rivisitazione in modo approfondito.

Ecco perché invitiamo a mettere sotto i riflettori la Resistenza per quello che ha rappresentato nella storia delle società democratiche che vogliono non solo sopravvivere ma svilupparsi, mantenendosi in sintonia con le esigenze del nostro tempo. Un tempo frenetico, carico di problemi e pure di drammi, ma aperto anche a prospettive affascinanti di sviluppo civile.

 

 

CRONOLOGIA RAGIONATA

 

Il 28 giugno 1914 vengono assassinati -a Saraievo- l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, e sua moglie durante un attentato dello studente bosniaco dell'organizzazione "Unità o morte". E' la scintilla che provocherà la prima guerra mondiale.

 

Gli avvenimenti precipitano. L'Impero Austro‑Ungarico lancia il 23 luglio, dopo avere ottenuto il pieno appoggio della Germania, un ultimatum di 48 ore alla Serbia. Avendo ottenuto una risposta negativa, il 28 viene dichiarata la guerra. Il 30 la Russia, in appoggio alla Serbia, decide la mobilitazione generale. Il primo agosto la Germania, in risposta, dichiara guerra alla Russia. Le tensioni che l'inizio di secolo aveva registrato e che l'attività diplomatica non era riuscita a risolvere finiscono in una tragedia che coinvolgerà tutta l'Europa, il Medio Oriente e alcune regioni dell'Africa, con particolare riguardo ai possedimenti coloniali tedeschi. Francia, Inghilterra e, quindi Italia, Romania e Grecia scendono in campo a favore dell'Intesa. I tentativi operati dall'Austria di impedire l'entrata in guerra dell'Italia con alcune concessioni territoriali falliscono. Gli appelli alla neutralità di Giovanni Giolitti non troveranno ascolto.

 

Dal 1914 al 1918 gli eserciti si fronteggiano con alterna fortuna. I tentativi tedeschi di aggirare la linea Maginot francese attraverso l’invasione del Belgio falliscono. I francesi riescono prima a bloccare sul proprio territorio le armate tedesche e, quindi, con l'aiuto degli alleati a respingerli. La guerra si prolunga oltre ogni previsione. Muoiono a centinaia di migliaia i giovani. Alla fine, si conteranno quasi 10 milioni di morti. I dati ufficiali registrano: 1.808.600 caduti tedeschi; 1.700.000 russi; 1.386.000 francesi; 1.200.000 soldati caduti nell'esercito austro‑ungarico; 947.000 inglesi; 600.000 italiani; 360.000 serbi; 326.000 turchi; 250.000 rumeni; 115.000 americani.

 

I trattati di pace che verranno firmati, dopo la sconfitta della Triplice, fra il 1919 e il 1920 si lasciano dietro dolore, distruzioni, uno stato di crisi profonda delle economie dei vari Paesi che hanno partecipato al conflitto, rancori e rabbia.

 

La costituzione della Società delle Nazioni nel 1919 e la sua entrata in funzione nel 1920 non riesce a mettere ordine in una situazione caratterizzata da proteste violente in quasi tutti i Paesi.

 

Nel 1917 la Russia aveva dato il là con la Rivoluzione d'ottobre. Ma proteste nelle fabbriche e ammutinamenti negli eserciti si segnalano anche in Germania, in Austria, in Francia, in Italia e su quasi tutti i fronti dove gli Stati Maggiori decidono di intervenire con arresti, fucilazioni, decimazioni.

 

La pace non arresterà queste proteste. La grande carneficina ‑proprio per le nuove tensioni determinate‑ consoliderà in vasti strati della popolazione la convinzione circa la sua inutilità.

 

Inflazione, disoccupazione, aumento vertiginoso del costo della vita determinano situazioni esplosive. La rivoluzione bolscevica appare a vasti settori della classe operaia come una via d'uscita dalle situazioni disperate in cui milioni di famiglie sono precipitate.

 

Le società democratiche si dimostrano incapaci, anche perché divise al loro interno, di fare fronte alla crisi.

 

Fra il 1922 e il 1936 si instaurano in molti Paesi europei regimi autoritari. Nell'ottobre del 1922 il fascismo prende il potere in Italia. Nel giro di sei anni, tutte le libertà civili vengono soppresse. Nell'Unione Sovietica, si afferma il, regime dittatoriale di Stalin con l'eliminazione di tutti gli oppositori esterni e interni al Partito Bolscevico. Nel 1923 si instaura una dittatura militare in Bulgaria. Nello stesso anno, il generale Primo De Rivera prende il potere in Spagna. Nel 1926, la Polonia, il Portogallo, la Lituania instaurano governi autoritari. Dal 1929 al 1932, si assiste all’affermazione di governi dittatoriali anche in Jugoslavia e in Romania. Nel 1933 prende il potere in Germania Hitler. Nello stesso anno, un regime autoritario si instaura in Austria. Nel 1934 è la Lettonia a darsi una dittatura presidenziale. Colpo di Stato in Grecia nel 1936 ad opera del generale Metaxas. Nel settembre dello stesso anno, il generale Franco capeggia la rivolta contro il governo repubblicano spagnolo instaurato dopo la vittoria elettorale del fronte popolare (16 febbraio 1936). E' la risposta, la sola risposta, che i gruppi dirigenti sanno dare al problemi che le società moderne presentano, in termini spesso esasperati.

 

In una situazione di crisi generale, la Società delle Nazioni rivela tutta la sua organica debolezza, rinunciando ad assumere nei confronti dei processi di liquidazione delle libertà democratiche un atteggiamento fermo. Le sanzioni proclamate contro l'Italia per l'intervento di Mussolini in Abissinia lasciano il tempo che trovano. Molti Paesi, fra cui la stessa Italia (1936), lasciano l'organizzazione. Il massiccio riarmo della Germania non trova censure di rilievo. Non si va al di là delle parole.

 

Fra il 1936 e il 1939 si moltiplicano gli atti di forza e di aggressione. La guerra civile in Spagna, scatenata dal generale Francisco Franco contro il governo legittimo, rappresenta il terreno di prova per la utilizzazione di nuove armi e, in modo particolare, dell'aviazione. La Germania nazista e l'Italia fascista appoggiano apertamente Franco con l'invio di uomini e di materiale bellico. A favore del governo legittimo accorrono da ogni parte del mondo volontari contrari al fascismo. Molti anche gli italiani che combattono a fianco delle truppe fedeli al governo.

 

La conclusione della guerra civile di Spagna (1939) con la vittoria di Franco coincide praticamente con l'inizio della seconda guerra mondiale, preparata dalla Germania con l'occupazione della regione dei Sudeti (maggio 1938) assegnata alla Cecoslovacchia dal trattato di pace del 1919.

 

Gli atti di violenza e di aggressione che hanno segnato la seconda metà degli anni trenta (preceduti dalla salita al potere in molti Paesi di regimi autoritari) rappresentano la manifestazione più evidente della debolezza delle democrazie incapaci di far valere direttamente o attraverso la Società delle Nazioni le ragioni iscritte nei trattati di pace e nello stesso Statuto della organizzazione internazionale. A Monaco con l'accettazione della mutilazione della Cecoslovacchia (29 settembre 1938) si lascia praticamente mano libera alla Germania nazista. La violenza, che nello Statuto della Società delle Nazioni era

stata bandita come mezzo per risolvere le vertenze internazionali, trionfa. A Monaco in nome della pace si realizza, in realtà, l'ultimo atto contro la pace stessa. Hitler ritiene di avere oramai la forza per piegare alle sue logiche la politica internazionale. Il primo settembre 1939 le sue armate attraversano il confine polacco. Comincia così la seconda guerra mondiale. Il 3 settembre Francia e Inghilterra intervengono. L'Italia, che ha sottoscritto un patto di alleanza con la Germania, dichiara lo stato di non belligeranza. Entrerà in guerra il 10 giugno 1940, quando si sta profilando la disfatta degli eserciti alleati in Francia (Parigi viene occupata dai tedeschi il 14 giugno 1940).

L'idea che la guerra possa risolversi rapidamente trova largo credito presso il governo italiano. Ma l'illusione dura poco. L'invasione dell'Unione Sovietica (22 giugno 1941) e l'entrata in guerra degli Stati Uniti nello stesso anno (1941) finiranno per determinare il rovesciamento dei rapporti di forza. Prima lentamente e poi, a partire dall'inizio del 1943 con la sconfitta dei tedeschi a Stalingrado (31 gennaio resa delle armate di von Paulus), sempre più rapidamente. Lo sbarco nel luglio del 43 in Sicilia da parte degli alleati e, soprattutto, lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) con l'apertura del secondo fronte costringeranno la Germania alla resa. L'Italia, dopo la caduta del governo fascista (25 luglio 1943) firmerà la resa incondizionata l'8 settembre dello stesso anno. La guerra partigiana che subito dopo si svilupperà in tutto il Paese non occupato dagli alleati coinvolgerà la stragrande maggioranza della popolazione. I movimenti di Resistenza rappresentano uno dei momenti più significativi della seconda guerra mondiale in quanto registrano l'impegno dei civili a fianco dei militari nel grande confronto contro il nazismo e il fascismo. La guerra aveva sconvolto, con l'introduzione di nuove tecniche militari, le antiche divisioni fra militari e civili. Alla fine si conteranno più morti fra i civili (oltre il 50%) che fra i militari. La Resistenza, in tutte le su espressioni, ha rappresentato la risposta delle popolazioni ai responsabili di questa immane tragedia che ha fatto più di 50 milioni di vittime, senza distinzioni fra uomini e donne, fra anziani e bambini.

 

Se la barbarie (espressa in modo impressionante dai campi di sterminio) non ha trionfato, lo si deve anche a questa capacità di reazione della società civile che, in ogni modo, ha manifestato la sua protesta. In armi nelle formazioni partigiane ma anche con gli scioperi, le manifestazioni di strada, i sabotaggi nelle fabbriche e fuori. Famosi gli scioperi in Italia del marzo 1944, in piena occupazione tedesca.

 

La Germania si arrende senza condizioni il 7 e l'8 maggio 1945. Toccherà farlo poi al Giappone (2 settembre 1945).

 

Sei anni di guerra hanno seminato morti, dolore, distruzioni ovunque. Sono più di 50 milioni i morti. Di questi oltre il 50% civili. Ma si tratta pur sempre di dati ufficiali. Come sempre accade quando le tragedie dell'umanità assumono questa dimensione, risulta impossibile, pure nel nostro tempo, tenerne il conto. Anche perché le manifestazioni di crudeltà e di barbarie hanno investito popolazioni intere. Solo nei campi di sterminio dei nazisti sono stati eliminati 20 milioni fra uomini, donne e bambini, di cui circa 7 milioni di ebrei. Ma l’assassinio di massa non riguarda solo i campi nazisti. A Katin in Polonia, vengono sterminati 12.000 ufficiali polacchi per mano dell'Armata Rossa. Stalin, che aveva anticipato i nazisti nella costruzione dei lager, avrebbe fatto durante gli anni del suo potere 20 milioni di vittime (Roi Medvedev: “Lo Stalinismo”, Mondadori 1972), quante se ne sono contate [in campo sovietico] durante la seconda guerra mondiale.

 

I morti della seconda guerra mondiale sono stati 55 milioni, di oltre cinque volte superiori a quelli della prima. I feriti 35 milioni. I dispersi 3 milioni. Il censimento che ne e stato fatto dai vari Paesi dice che sono morti fra il 1939 e il 1945 per quanto riguarda i militari: 13 milioni e 600 mila soldati sovietici; 6 milioni e 400 mila cinesi; 4 milioni di tedeschi; 1 milione 200 mila giapponesi; 60 mila soldati della Gran Bretagna e del Commonwealth; 325 mila americani; 400 mila italiani. Ben più gravi le perdite fra i civili: fra i 7 e gli 8 milioni di ebrei nei campi di eliminazione; 1 milione e 500 mila morti solo per i bombardamenti; dai 20 ai 30 milioni di vittime per la lotta partigiana, le deportazioni nei campi di sterminio e di lavoro, per gli eccidi compiuti dai nazisti con la distruzione delle popolazioni di interi villaggi; 7 milioni di russi; 5 milioni e 400 mila cinesi; 4 milioni e 200 mila polacchi; 3 milioni e 800 tedeschi.

 

La proclamazione della pace è salutata con gioia. L'umanità è convinta, dopo questa drammatica prova, di essersi lasciata alle spalle un capitolo della sua storia. Il 26 giugno 1945 viene fondata l'ONU, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, che, in modo solenne, mette al bando la guerra. Vi aderiscono subito 50 Paesi che ne sottoscrivono la Carta (111 articoli). I poteri della nuova organizzazione internazionale vengono estesi rispetto alla Società delle Nazioni, sorta dopo la prima guerra mondiale. Il 15 ottobre la Carta dell'ONU diventa legge per tutti gli aderenti. Il 25 ottobre viene dichiarato "Giornata delle Nazioni Unite".

 

Ma il clima di collaborazione dura poco. Le tensioni, che erano state soffocate dalla esigenza di compiere uniti il massimo sforzo contro nazismo e fascismo, riesplodono presto. Il piano Marshal (1947) di aiuti all'Europa incontra l'opposizione del sistema comunista. Stalin impone a tutti di respingerlo. Le persecuzioni verso gli oppositori riprendono con vigore. Si imbastiscono processi farsa contro i dirigenti dei Partiti comunisti al potere in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria per bloccare qualsiasi tentativo di autonomia. I processi, come quelli degli anni trenta in URSS, finiscono tragicamente, vale a dire con l’eliminazione fisica (salvo che in Polonia) dei possibili oppositori.

 

La guerra fredda divide il mondo in due blocchi. Nel 1949 viene costituito il Patto Atlantico con l'adesione di 12 Paesi: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Repubblica Federale Tedesca, Stati Uniti, Turchia. In risposta ad esso, viene costituito nel 1955 il Patto di Varsavia con la partecipazione di Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia. Polonia, Romania, Ungheria, Unione Sovietica. Un anno dopo, nel 1956, vi aderirà anche la Repubblica Democratica Tedesca (RDT).

 

Il clima di tensione che si respira sfocerà ben presto in conflitti armati, sia pure locali. La guerra di Corea (1950‑1953), il Vietnam (prima fase: 1946-’54; seconda fase: 1957-‘75), il conflitto arabo‑israeliano (ininterrotto dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi) danno la misura degli interessi in gioco. Si moltiplicano anche le alleanze militari ed economiche in ogni parte del mondo. L'instabilità regna ovunque.

 

Eppure mai come in questo periodo della storia del Novecento si assiste a una ampia e profonda mobilitazione attorno ai valori di libertà di democrazia, di giustizia. Il vecchio sistema coloniale va in pezzi. India, Cina, la maggior parte dei Paesi africani acquistano l'indipendenza. L'Algeria si sgancia dalla Francia. I vecchi regimi (le monarchie) legati al sistema coloniale crollano. Egitto e Libia diventano repubbliche. I primi decenni della seconda metà del Novecento registrano la generale rivolta contro il colonialismo. I movimenti di liberazione si intrecciano con attività diplomatica intensissima in cui anche l'ONU gioca una parte importante. Moltissimi Paesi del Terzo Mondo si sottraggono alla tutela delle grandi potenze. Nasce così l’alleanza fra i Paesi non allineati, che trova nella Jugoslavia di Tito (Josip Broz, presidente del consiglio dei ministri dal 1945, e della Repubblica dal 1953 al 1980) uno fra i suoi principali punti di riferimento.

 

Le speranze in un diverso modo di concepire e praticare i rapporti sul piano internazionale non vengono soffocate dalla divisione del mondo in due blocchi. Crepe vistose si manifestano all'interno di questa concezione schematica del mondo. L'URSS con Nikita Krusciov (dopo la morte di Stalin nel 1953) condanna le violenze perpetrate dal dittatore in un famoso discorso del 1956; gli Stati Uniti con il presidente John Kennedy (1961-1963) apre al confronto, invitando gli americani alla conquista di nuove frontiere di civiltà; la Chiesa con Papa Giovanni XXIII (1958-1963) fa del dialogo la propria bandiera. Gli incidenti internazionali si intrecciano con le manifestazioni di apertura che tendono a mettere in crisi la guerra fredda.

 

Ma è negli anni ottanta che questa crisi esplode con il recupero pieno dei valori di libertà, di democrazia, di giustizia, di pace. Il sistema comunista, che si è retto sulla violenza, crolla. Nel 1989 l'URSS si sfalda. Si dice per la impossibilità di reggere un'economia che aveva liquidato il mercato. Con tutta probabilità, invece, per non avere accolto la domanda di partecipazione della società sovietica. La Primavera di Praga stava dimostrando nel 1968 che, con questa partecipazione, anche un'economia socialista ‑non rigida, in grado di utilizzare le regole del mercato‑ avrebbe potuto sopravvivere. I carri armati sovietici intervenuti nell'agosto impedirono di verificarlo. Il mercato, così come è sempre stato inteso dal liberalismo più esasperato, deve ancora dimostrare di essere in grado di dare risposta a tutti i problemi del nostro tempo.

 

Il richiamo della Chiesa alla dignità dell'uomo, mortificato spesso proprio dal mercato e dalle sue ferree leggi, rappresenta un ammonimento universale. E' un invito a ragionare su tutte le lezioni del Novecento, secolo terribile ma anche affascinante per le speranze che ha acceso e che meritano tutta l'attenzione degli uomini di buona volontà, impegnati a raccogliere e a tradurre fin dove e possibile il messaggio di chi ha speso la vita per spostare in avanti le frontiere della civiltà. Coinvolgendo in questo sforzo tutti, gli uomini, le donne, i giovani? Per noi non ci sono dubbi. Per questo sulla democrazia partecipata, così come è stata vissuta dalla Resistenza durante la seconda guerra mondiale, è necessario sviluppare la riflessione. Per gli impegnativi appuntamenti di oggi e di domani.

 

 

 

Milano, 25 aprile 1998

 

Istituto Didattico Pedagogico della Resistenza

 

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