Antonio Bello

 

 

LE MIE NOTTI INSONNI

 

Per cristiani costruttori di speranza e di pace

 


 

 Capitolo 2

 

GUARDIAMO VERSO GERUSALEMME

 

Meditazione sulla pace

ermeneutica, dossologica, politica, utopica

 

(7 dicembre 1986)

 

 

Prendo la parola con grande trepidazione, perché so quanto sia difficile additare dei traguardi senza apparire presuntuosi, abbozzare delle linee progettuali senza correre il rischio della genericità, proporre un reticolo nuovo di impegni senza conoscere a fondo l’articolatissima storia che Pax Christi italiana ha espresso e vissuto in questi quarant’anni di vita.

         Se mi è lecito, però, adoperare un termine militare, dirò subito che con questo mio intervento uscirò in «avanscoperta», lasciando poi a ciascuno di voi il compito di verificare la praticabilità della strategia che vi propongo, al fine di sempre meglio abitare il nostro movimento a essere «costruttore di pace».

         Mi servirò di uno schema biblico, non solo per un bisogno di organicità espositiva, ma anche perché idoneo a innervare la salvezza delle nostre analisi, a esemplare lo stile del nostro impegno, a irrorare la genialità della nostra prassi di pace, e a non banalizzare le nostre utopie.

         Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore che si racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo in quattro icone.

         Nessuno di voi è tanto digiuno di riferimenti scritturistici da non sapere che Gerusalemme è la Città Santa, che già nella sua etimologia rievoca tutta la galassia dello shalom biblico: è la beata pacis visio, il simbolo, l’immagine della pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace: «Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio… egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento» (Salmo 147, 12-14).

         Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.

         Allora sulla scorta di questo tema generatore tracceremo quattro proiezioni che dovrebbero essere le linee di forza del nostro movimento nei prossimi anni:

-         Salire a Gerusalemme (pace ermeneutica);

-         Sostare a Gerusalemme (pace dossologica);

-         Scendere da Gerusalemme (pace politica);

-         Verso la Gerusalemme del cielo (pace utopica).

 

 

SALIRE A GERUSALEMME

  

Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, «città del sommo Dio». Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione prendeva l’animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i Salmi detti appunto «delle ascensioni». Uno dei più belli è il Salmo 122:

«Quale gioia, quando mi dissero:

Andremo alla casa del Signore.

E ora i nostri piedi si fermano

alle tue porte, Gerusalemme!…

Domandate pace per Gerusalemme:

sia pace a coloro che ti amano;

sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi.

Per i miei fratelli e i miei amici io ti dirò:

su di te sia pace».

 

L’icona degli Ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi di Pax Christi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della Pace.

 

 

La «lectio divina» della pace

 

Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro impegno: quella della ricerca. Vorrei assumere come telaio di questa prima dimensione la frase di un monaco certosino del 1100, Guido II, che parlando della lectio divina, cioè della metodologia da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. E dice così: «La lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio, la contemplazione è superamento di ogni senso».

         Ora ecco la mia prima proiezione. Pax Christi dovrebbe essere in Italia l’organo promotore di una «lectio divina» della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano proposti ai monaci per la lectio divina della Parola.

 

 

La lettura dei segni

 

Anzitutto la lettura. Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni di pace.

         Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.

 

         La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante l’aborto. In proposito, vi leggo una mozione approvata a Foligno dal VI Convegno Nazionale dei Centri di Aiuto alla Vita, tenutosi dal 7 al 9 novembre scorso con la partecipazione di 420 responsabili: «Il Convegno, di fronte all’insorgere di nuove forme di clandestinità dell’aborto quali il crescente impiego ambulatoriale di attrezzature Karman e di farmaci abortivi, chiede a quanti in nome di una cultura di pace si battono per un efficace controllo del commercio delle armi, di includere questi strumenti chirurgici e chimici, usati ogni giorno per la morte dei bambini non nati, nella loro giusta e nobile battaglia».

         Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri etici, pare forse che il bisogno di un’autentica difesa della vita non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l’ansia di un momento affrancato dall’incubo nucleare, verso un comune allargamento degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano a proclamare in decadimento.

 

         La violenza ad onde medie che viene perpetrata in Paesi pure vicini a noi, ma non sempre collocata nella focale dei media. Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in Irak, in Etiopia, in Sudan…, nei Paesi del Medio Oriente, o sulle violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell’America, o nell’America Latina, ma anche nei Paesi dell’Est europeo, cade la complicità della stampa e l’indifferenza delle coscienze.

 

         La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più che sul versante dell’avere, su quello dell’essere. Hanno ancora valore le parole che Solgenitzin scriveva tredici anni fa: «I tipi di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbero quasi scambiare per tradizioni e usanze abituali… Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose… L’impegno è quello di cancellare dagli uomini l’idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati».

         Ma dovremmo avere anche antenne più sensibili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente. Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema della pace, che si esprime, come osserva Ernesto Balducci, in una duplice forma: «quella di superficie, che diventa prorompente quando gli eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni più diverse e con i più diversi sostegni: dagli enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie.

         Il movimento per la pace è come una galassia che occupa la zona intermedia tra l’opinione pubblica e le strutture di partito, una zona nella quale avvengono, magari silenziosamente, le metamorfosi chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati dei poteri.

         È difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno che è, come dicono i sociologi, «allo stato nascente». Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio generoso dell’immaginazione il futuro del mondo intero, e l’insistenza ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare un esempio, l’abolizione della caccia; la propensione a risolvere tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la denominazione degli uomini politici in cui si incarna l’ideologia di sicurezza armata, e l’idealizzazione della guerriglia contro gli imperi atomici. È un mondo fluido quello del movimento per la pace, in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti. Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro, a tutti i livelli della società».

         Ebbene, nella lettura di questi segnali di guerra, ma anche di questi segnali di pace, Pax Christi dovrebbe diventare in Italia guida solerte.

 

 

La pace negli spazi speculativi della fede

 

Il secondo momento della lectio divina della pace è quello della meditazione. Io vorrei dire: quello della sistemazione teologica.

         Purtroppo non c’è ancora in Italia un’apprezzabile teologia della pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussidi di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che indugiano intorno ai termini shalom ed eirene, o intorno al termine opposto hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso delle rerlazioni tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e le cose, tra l’uomo e l’altro uomo.

         Quello della pace viene visto ancora come solo come tema di ordine etico, che risiede cioè esclusivamente nelle nicchie operative della morale, non è un tema di carattere cristologico e trinitario che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.

È doloroso dirlo: ma io penso che buona parte delle perplessità anche dei nostri episcopati sul tema della pace derivi dalla mancanza di una sua seria fondazione teologica. Non c’è ancora una irenologia sistematica. Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristologici, centrati sul famoso passo della lettera agli Efesini, in cui si afferma che «Egli (Cristo) è la nostra pace» (Ef 2, 14-18).

         Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere nel fodero o sull’altra guancia da porgere allo schiaffo; mentre, sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una teologia delle guerra o la legittimazione di una certa violenza sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del Nuovo («Non sono venuto a portare la pace, ma la spada») (Mt 10,35).

         Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario come la convivialità delle differenze, o come icona della vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione retorica.

         È davvero malinconico osservare come il cristiano, definito da Tertulliano «uno che lavora per la vita» non trovi ancora chiari riferimenti in una irenologia, che dovrebbe essere una obiezione di coscienza totale di fronte ai poteri della terra che minacciano di bruciare l’umanità in un olocausto senza precedenti.

         Ecco il compito più duro della «ascesa verso Gerusalemme». Emerge da più parti (i diversi coordinamenti del Sud e del Nord) la necessità che Pax Christi solleciti la creazione di una commissione che affronti il problema della fondazione teologica della pace, mollando gli ormeggi dall’area moralistica, tecnica, funzionale, intramondana e diplomatica. Siamo certi che sarà proprio dalla irenologia che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che rinnoveranno la storia.

 

 

La pace come questione spirituale

 

Ed ecco al terzo momento della lectio divina: la preghiera. È qui che si deve innestare, in moduli più forti, l’impegno di Pax Christi sulla spiritualità della pace. Spiritualità che non significa confino del nostro movimento nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo dei gruppi con la panna montata delle canzonette religiose.

         Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff: «Il pane per me stesso è una questione materiale. Il pane per il mio vicino è una questione spirituale». Spiritualità della pace significa appunto cercare il pane per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza che il pane sovra sostanziale della pace è un dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l’uomo da se stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regolamento internazionale dei conflitti non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all’accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non la pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l’esistenza della pace.

         La pace è oriens ex alto, come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alla Ecclesia de Trinitate, così dobbiamo abituarci a pensare alla pax de Trinitate. E come la Chiesa non è una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita nel mondo, non utopica ma profetica… così deve essere la pace. E come la Chiesa, icona della Trinità, è epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato dall’eternità, così la pace sulla terra, icona della vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del mondo rinnovato.

         Questo parallelo tra Chiesa e pace, ho voluto farlo di proposito per dire che Pax Christi deve intensificare gli sforzi per caratterizzare la spiritualità della pace come spiritualità ecclesiale.

         Capite che cosa voglio dire. Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità non è tentare un’operazione di assestamento aziendale, tesa ad accaparrarsi la benevolenza di questo vescovo o di quel cardinale, di una Congregazione romana o della Segreteria di Stato, di un gruppo parrocchiale o di un’associazione di base. Significa, invece, intuire che l’unica trama che può veicolare l’acqua della pace (oriens ex alto) è la trama ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo essere «realtà di comunione».

         Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento sim-patico dei nostri pastori, alla pressione rispettosa sui nostri vescovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore parresìa delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre realtà di base sul versante della implorazione, secondo la formula umile e coraggiosa del card. Etchegaray: «Signore dammi l’accortezza di spiegare bene che la pace non è così semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto crede la ragione!».

         E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremo annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d’Occidente la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?

 

 

La pace come profezia «a caro prezzo»

 

Finalmente siamo arrivati all’ultimo momento della lectio divina della pace: la contemplazione.

         Che non è stasi, ma estasi (ex-stasis), cioè movimento, esodo, sequela. La sequela di Cristo che significa camminare nella luce del Signore e nell’ascolto della sua parola, con tutte le implicazioni difficili del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla non-violenza attiva, sulla povertà come metodo, sul servizio, sulla partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci direttamente da Cristo, e così difficile da accogliere sia a livello personale, sia a livello internazionale!). Senza queste dimensioni, Pax Christi diventerebbe solo banditrice di pseudo-profezie, o di una pace «a basso prezzo», come direbbe Bonhoeffer, che parlava di «grazia a caro prezzo».

 

[omissis]

 

 

[Antonio Bello, «LE MIE NOTTI INSONNI. Per cristiani costruttori di speranza e di pace», Capitolo 2: «GUARDIAMO VERSO GERUSALEMME. Meditazione sulla pace ermeneutica, dossologia, politica, utopica», (7 dicembre 1986), Edizioni San Paolo, 1996].

 

 

 


 

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